sabato 27 ottobre 2012

Racconto - FeFe

Ciao a tutti! 
E' con l'occasione di un'ora di attesa per ritirare un libro che ho deciso di rompere la pausa "estiva". Quindi ecco a voi un nuovo racconto fresco fresco. Stavolta non si tratta di un "dueparole", ma di un racconto a parte, per il quale non ho volutamente scelto un titolo. Vorrei continuarlo, ma non ne sono sicuro, così come non sono sicuro di alcune cose nel testo, come per esempio il sesso del protagonista. Ergo, se notate errori e/o avete suggerimenti, vi prego di scriverli nei commenti! :-)
Grazie e buona lettura a tutti! :-D
FeFe

Racconto

Voleva scappare. Era tutto quello che sapeva. Stava nella sua stanza fissando la finestra. Il cielo era grigio, lo era da molto tempo. Non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva visto la luce del Sole, ed aveva sentito il suo tepore sulla pelle. La gioia, quella gioia di sentirsi felice di vivere secondo i propri sogni, secondo quello che sentiva dentro. L’aveva mai provata? Aveva realmente vissuto in quel modo? Forse.. non riusciva a ricordare. Aveva di certo vissuto, ma non secondo ciò che provava, bensì secondo quello che provava qualcun altro che decideva per lui. Se ne era accorto in un pomeriggio di luglio, mentre passeggiava per la città senza una meta; non l’aveva mai fatto, era la prima volta. In ogni momento della sua vita aveva sempre fatto qualche cosa. Anche quando riposava sentiva il bisogno di fare, altrimenti avrebbe perso tempo. Il TEMPO: quell’impalpabile sensazione che sfugge, scappa via e non ritorna. Sapeva di non doverlo perdere, poiché era prezioso. Lo custodiva gelosamente e sentiva di doverne sfruttare ogni secondo per non restare indietro. Ora non più: quel pomeriggio aveva detto BASTA. Aveva preso la borsa con dentro un libro e si era diretto verso la città. Non aveva una meta, voleva perdersi ed i vicoli del vecchio centro si adattavano bene allo scopo. Si avventurava nelle viuzze strette come ci si avventura in un pensiero insolito che balena improvvisamente nella testa. E così come un pensiero porta ad un altro, le vie sfociavano l’una nell’altra senza fine: un fiume che scorre. Il fiume delle vie, il fiume dei pensieri. Era bello. Finalmente si sentiva sé stesso, sentiva il suo cuore e i suoi desideri, senza più filtri, senza più influenze esterne. Aveva assaggiato un boccone di libertà ed ora voleva farne indigestione.

La pioggia aveva iniziato a cadere incessantemente. Batteva forte sul vetro, così come gli ordini di chi pensa di poter imporre la propria volontà sulla libertà altrui. “BASTA!” si ripeteva in testa. Sentiva il bisogno d’aria fresca, un’aria ristoratrice che potesse salvarlo. Si voltò verso l’interno della camera. Vedeva le sue cose: regali, acquisti, spesso oggetti superflui presi per calmare momentaneamente la tristezza dell’animo: la splendida illusione della sua epoca. Ispezionò attentamente ogni oggetto. Catalogò mentalmente quelli che per lui erano indispensabili. Di colpo, quasi fosse vittima di un raptus, tirò fuori una grande borsa ed iniziò ad infilarci dentro alla rinfusa ciò che aveva individuato come indispensabile. Quando ebbe finito si concesse un attimo per riprendersi. Si sedette sul letto e chiuse gli occhi respirando lentamente: voleva fuggire ma aveva paura, la stessa paura  che si impossessa di chi, per salvarsi da una situazione pericolosa, deve necessariamente buttarsi nel vuoto. Sentiva la stessa vertigine, la medesima paura. Doveva buttarsi, ma guardandosi indietro ripensava alla sua “prigione” e la vedeva ora come un luogo confortevole e sicuro, un posto in cui forse poteva restare, se avesse imparato ad accettare tutti quegli odiati compromessi che ora sembravano quasi accettabili in cambio di quella cella che somigliava adesso ad un bellissimo giardino. Tuttavia, anche Adamo ed Eva vivevano in un paradiso meraviglioso, ma la voglia di conoscere li aveva spinti a trasgredire. Volevano la conoscenza ed in cambio avevano ottenuto la “cacciata dal paradiso terrestre”. Tramite la punizione avevano però potuto conoscere il resto del mondo che li circondava, un mondo strano, talvolta bello, talvolta crudele, ma comunque più grande di un giardino.

Aprì gli occhi, guardò la porta. Si alzò di scatto. Prese la borsa e afferrò la maniglia..

FeFe

martedì 19 giugno 2012

"dueparole" - Pausa!

Come già annunciato dalla nostra ElfoMiope, dueparole andrà in "vacanza" per l'opprimente sessione d'esami che tutti e tre stiamo vivendo..
Nel frattempo verranno pubblicati i racconti restanti delle precedenti settimane ed altri racconti degli autori, non inerenti alla sezione dueparole.
Buona lettura e buono studio! D:
:)
FeFe

domenica 17 giugno 2012

Un Processo - ElfoMiope


Bonsoir! Come accennato in precedenza, mi trovo sotto molteplici esami. Ciò ha fatto sì che ciò che restava di minimamente coerente nel mio cervello andasse perduto per sempre (o almeno fino a inizio Luglio), e questa storia ne è il tragico risultato.
Sarete contenti adesso, professori. Sarete contenti, di aver creato un'idiota :)

ps: è con rammarico dolorequem che vi annuncio che io ed i miei due altrettantosottoesami compagni abbiamo deciso di sospendere il dueparole fino a quando non saremo certi di esserci tratti in salvo da quella terribile nave naufragante che è l'inizio dell'Estate per gli studenti.

UN PROCESSO    Apologia del Tempo
 “L’assassino è il Tempo, Signor Giudice”, esordì l’accusa, nelle spoglie dell’avvocato Pagliuzzi. Sotto gli occhi del giudice, della giuria e della famiglia del morto, l’allampanato Pagliuzzi camminò con passo teatrale attraverso l’aula, sino a trovarsi di fronte al Tempo; sul banco di quest’ultimo l’avvocato ebbe cura di sbattere con violenza un pesante fascicolo di fogli, causando un gran frastuono. Il Tempo restò impassibile.
“Tutte le prove testimoniano a suo sfavore, tutte le strade portano a lui”, continuò Pagliuzzi, un po’ deluso dall’assenza di reazioni da parte dell’accusato. “Testimoni oculari, tra i quali ho scelto di includere non solo alcuni familiari ma anche l’infermiere e la farmacista che vedevano la nostra vittima tutti i giorni, sono qui pronti a giurare di aver assistito in prima persona  al lento e sadico omicidio perpetrato dal Tempo qui presente ai danni di Giacomo Vegliardi”
“Che parli un testimone, allora”, fece il giudice, sbrigativo. Aveva il raffreddore e nemmeno un processo tanto inusuale poteva risvegliare il suo entusiasmo, al momento. Incurante dell’opinione dei presenti, sciolse nell’acqua due aspirine e le trangugiò.
Intanto alla sua esortazione una donna vestita di grigio si era alzata dal banco dei testimoni: era la farmacista, gestiva il negozio dove il morto (quand’era ancora vivo, s’intende) per quarant’anni si era recato quasi ogni giorno, fino all’ultimo, a comprare quantità industriali di medicine. La donna portava i capelli legati stretti, ed un attento osservatore avrebbe potuto capire che era agitata notando le gocce di sudore che le si formavano sulla nuca.
“Io sono Amanda Cenere, Vostro Onore”, esordì la donna con voce vagamente tremolante. “Ed il signor Vegliardi lo conoscevo bene, per così dire, o almeno lo vedevo praticamente tutti i giorni. Il signore infatti è sempre venuto a comprare le medicine da noi, prima ancora che io iniziassi a lavorare alla farmacia. Sempre vissuto nello stesso posto, sempre gentile, il signor Vegliardi. Pensi che una volta-“, La signora Cenere s’interruppe, bloccata da uno sguardo eloquente dell’avvocato Pagliuzzi. Svelta, cambiò di nuovo argomento: “Insomma, Vostro Onore, tutto è andato sempre bene per il signor Vegliardi, all’apparenza, ma io lo vedevo, che c’era qualcosa che non andava. I capelli, ad esempio:  i suoi capelli diventavano di anno in anno più bianchi, come a testimoniare un grande stress emotivo, o un terribile shock. E il viso, Vostro Onore, il viso! Ogni giorno vi si tracciavano nuovi profondi solchi, che rendevano le sue espressioni sempre più grottesche. E poi, negli ultimi tempi, il signore camminava chino, zoppicante, con grande fatica: pareva che qualcuno lo avesse riempito di bastonate, senza pietà. Infine, un giorno non è più tornato.
Ma io ho capito subito cosa fosse successo e in realtà già l’avevo capito prima che accadesse: il signor Vegliardi è stato ucciso, anzi no, seviziato per anni ed anni, portato lentamente verso una morte snaturata. E non è il primo che vedo finire così, oh no, Vostro Onore, non è il primo! L’ho sempre sospettato, ma solo ora ho il coraggio di dirlo: è il Tempo, l’assassino! È stato lui a tormentare e terrorizzare il povero signor Vegliardi, fino a condurlo alla morte!”. La signora Cenere era parsa sempre più accaldata durante il suo lungo intervento, tanto che la sua incertezza iniziale era svanita senza lasciare traccia. La donna si voltò verso l’accusato dall’altra parte dell’aula, con un fare teatrale che probabilmente aveva attentamente studiato guardando chissà quale telefilm americano.
“Grazie, signora Cenere”, parlò allora Pagliuzzi, mellifluo, poggiando una mano sulla spalla della donna con fare paterno. “Come vedete, Signor Giudice, l’accusa della nostra rispettabile testimone è ben fondata e logica. Siamo tutti consci, infatti, dei terribili poteri che il Tempo ha a disposizione, e di come spesso si risolva ad usarli così, con tale barbarie, sui normali cittadini. Ma ora, Vostro Onore, se permette io chiamerei a parlare un altro testimone, il signor- “.
“Aspetti un attimo, Pagliuzzi”, lo interruppe però il giudice, volgendosi verso il banco dove Tempo stava impassibile. “Voglio ascoltare anche l’altra parte in causa. Tempo, ha portato con lei un legale, a strutturare la difesa?”
“No, Signor Giudice”, fu la prima frase pronunciata da Tempo in tutto il processo, “Parlerò io stesso in mia difesa”.
Tutti erano tesi verso l’accusato, ansiosi di veder cadere infine quello che consideravano il loro oppressore.
“Non mi trovo qui in aula perché sono stato accusato dal signor Pagliuzzi, oggi, né per difendermi da lui. Il buon avvocato segue probabilmente un interesse personale nel convocarmi qui cercando di attuare la mia rovina. Infatti egli teme me più di ogni altra cosa, è terrorizzato dal pensiero di finire come il signor Vegliardi, ogni nuovo capello bianco che si scopre durante le sue lunghe ispezioni allo specchio è per lui fonte di infinito tormento…”
“Irrilevante, Vostro Onore!”, strepitò Pagliuzzi, “Bugie, invenzioni!”
Il giudice riprese il Tempo, intimandogli di attenersi al processo. Questi acconsentì di buon grado.
“Ad ogni modo, Signor Giudice ed esseri umani qui riuniti, io sono tra voi oggi per aprirvi gli occhi. Quando avrò finito di parlare vi sarà chiaro che non io, bensì i vostri compagni terreni sono la causa della vostra fine”. Qui, un mormorio si diffuse nella sala, mentre tutti borbottavano senza capire le parole arcane dell’accusato.
“Sono addolorato per il Signor Vegliardi e per tutti coloro che si trovano a perdere la vita, spesso dopo prolungate sofferenze. Voi mi temete, perché ritenete che il mio scorrere vi porti man mano alla morte. Quasi come se io, da solo, potessi consumarvi lentamente, come se ogni minima frazione di me, ogni mio secondo, mano a mano rompesse irreparabilmente piccoli pezzi del vostro corpo. Come se io, il Tempo, procedendo rubassi tempo a voi. Ma come può il Tempo rubare il tempo? Non sono io che faccio avvizzire la vostra pelle, ‘arrugginire’ i vostri organi. Siete voi stessi, l’utilizzo che voi fate di voi stessi, a far sì che vi decomponiate lentamente. Io da solo non posso nuocervi affatto, ma l’aria che respirate, il cibo che mangiate…tutto fa sì che il vostro corpo imperfetto si stanchi. Come a dire che gli esseri viventi non hanno un limite di tempo, ma di utilizzo.
Io, il Tempo, sono solo un contenitore, l’arena all’interno della quale a voi e ad ogni altro oggetto o essere vivente è data piena libertà.  All’interno del Tempo si svolgono tutte le vicende: microscopiche, macroscopiche e nel vostro caso umane, in un infinito compenetrarsi. È l’attrito tra voi ed ogni altra componente del mondo che vi scalfisce, che vi porta via i pezzi.
Io e lo Spazio, vostri benefattori in quanto condizioni imprescindibili per la vostra esistenza, ci limitiamo a guardare.
L’invecchiare, dunque, a cui pone fine la vostra morte naturale, è frutto semplicemente del vostro continuo interagire con il resto del mondo, che si svolge sì all’interno di me, ma che da me non dipende in alcun modo. Così è stato e così sempre sarà; e se permettete che io qui vi lasci qualcosa su cui riflettere, non c’è niente di orribile nella Morte”.
Così terminò il Tempo il suo lungo discorso, a cui seguì un silenzio gelido. Nessuno dei presenti aveva l’aria di aver apprezzato particolarmente le parole dell’accusato. Pagliuzzi, anzi, colse al volo l’occasione per iniziare nuovamente a protestare, il suo tipico tono mellifluo gettato alle ortiche, e ben presto a lui si unì l’aula intera. Nel trambusto che seguì, tra gente che si alzava e agitava i pugni, il Tempo esasperato decise di girare i tacchi (o qualunque cosa il Tempo indossi al posto dei tacchi) ed andarsene. Sospirando, stropicciandosi le tempie con una mano, la sua figura impallidì progressivamente sino a sparire, e tanta era l’agitazione dei presenti che nessuno se ne accorse.
Solo il giudice, confuso, dovette ripensare a quel momento in particolare, perché gli parve distintamente di udire la voce gentile del Tempo sussurrargli in un orecchio: “La Morte non sarà male, amico mio, ma lascia che ti dia un consiglio: vacci piano con le aspirine”.


Marghe/ElfoMiope

mercoledì 13 giugno 2012

dueparole5

Gli esami straziano i nostri animi indeboliti, ed i post sono sempre più radi e sparpagliati. È dunque con fierezza e ben tre giorni di ritardo che vi comunico le due wowwose parole della settimana, gentilmente forniteci dalla Cosa:

Aspirina - Un farmaco antiinfiammatorio non-steroideo della famiglia dei salicilati.

Tempo - Il tempo è la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi. Essa induce la distinzione tra passato, presente e futuro. La complessità del concetto è da sempre oggetto di studi e riflessioni filosofiche e scientifiche


Marghe

venerdì 8 giugno 2012

L'artista - ElfoMiope


          Bene. è meglio che io non commenti il significato di questa storia, che penso si possa intuire comunque :)

                                                               L'artista

C’era una volta un grande Re. Questo Re, non essendo mai stato costretto ad entrare in guerra contro un qualche altro sovrano dei paesi vicini, si trovava costantemente a disporre di molto tempo libero. Per colmare dunque le sue lunghe giornate, aveva invitato ad abitare nel proprio castello decine e decine di artisti: v’erano, in quelle stanze di pietra, musici straordinari dalle voci simili al cinguettare degli uccelli, giullari i cui giochi facevano tremare l’intero castello per le risate degli spettatori, maghi capaci di stupire il più scettico degli alchimisti con migliaia di trucchi incredibili.
Eppure, il favorito del Re restava Aloisio.
Aloisio era un pittore, ma uno di straordinaria bravura. Da tutto il regno erano venuti  a sfidarlo, per guadagnarsi un posto alla corte del Re; eppure, nessuno era nemmeno riuscito ad avvicinarsi al suo genio.
I dipinti di Aloisio infatti sembravano magici: raffiguravano scenari meravigliosi e terre mai viste, tanto che in essi pareva potersi riflettere tutto il mondo che certamente si trovava racchiuso nella testa del pittore. Egli rendeva possibile l’impossibile: con una pennellata, nascevano le montagne. Un colpo di spatola, e uno zigomo si stagliava fiero su di un volto. E Aloisio, sebbene non ne facesse parola con il Re (infatti non credeva che qualcun altro, che non fosse lui stesso, potesse essere in grado di comprendere appieno la sua interiorità), assegnava ad ogni singolo tratto un significato. Nulla, per lui, era casuale. Sicuramente era questo che rendeva i suoi dipinti così straordinari: v’erano in essi infiniti significati nascosti, complessi ragionamenti che si traducevano, con un processo totalmente spontaneo, in immagini fantastiche. Impossibile non intuirlo, nonostante il pittore non fosse prodigo di spiegazioni.
In poche parole, l’arte di Aloisio faceva faville a corte ed il Re lo stimava e lo considerava un grande amico.
Fino al giorno in cui l’artista fece il suo ingresso nel castello.
L’artista era un uomo di mezz’età, benestante. Fin dalla prima volta in cui mise piede sul tappeto rosso del Re, gli occhi di tutti erano per lui. Emanava, dal suo sguardo, una sorta di aura di intelligenza, di sicurezza, con una dose di prepotenza che lasciò tutti a bocca aperta. Ad una guardia all’ingresso si spalancò addirittura l’elmo, con indubbio effetto cinematografico, rivelando uno sguardo imbambolato fisso su quello strano figuro.
L’artista si portò a grandi passi verso la lunga tavola imbandita dove il Re sedeva con Aloisio, immerso in una animata ma amichevole discussione. Quando fu giunto di fronte al sovrano, si esibì in un impercettibile inchino e con voce alta e sicura pronunciò queste parole:
“Vostra Maestà, mi presento: io sono Ambrogio Martino Secondo, e sono stato condotto fino a voi dal desiderio di diventare l'artista di corte”.
Il Re smise di parlare e volse lo sguardo sul nuovo arrivato.
“Ma io ho già un artista di corte, mio buon Ambrogio Paolino: è seduto ora al mio fianco. Dubito fortemente che tu possa anche solo avvicinarti, con la tua arte, alla sua magnificenza”.
Allora Aloisio non poté esimersi dall’entrare nella conversazione:
“Non siate precipitoso, mio Re”, esordì con modestia, “di artisti migliori di me sicuramente ne son nati e ancora ne nasceranno. Perché non mostrate al nostro Signore ciò di cui siete capace, Messer Ambrogio? Di sicuro avrete portato con voi uno o più esemplari del vostro lavoro”.
Allora l’artista, con grande stupore di tutti, avanzò di qualche passo e sputò nel piatto del Re. Poi, sotto gli sguardi attoniti della corte intera, raccolse il piatto e lo mostrò, alzandolo alto sopra la testa.
“Questa è la mia arte, mio Re!”, gridò; e come furioso scagliò il piatto in terra. Mille pezzi di terracotta volarono in tutte le direzioni.
Tutti i presenti fissavano l’artista ed i cocci, senza parole. Aloisio solo rideva esilarato, rompendo l’esterrefatto silenzio.
Infine, dopo quelle che parvero ore nell'atmosfera paralizzata della sala, il Re si alzò e parlò, balbettando:
“Ma… ma questo è oltraggioso, sì, oltraggioso… io, io ti chiedo perché l’hai fatto, e e ti ordino di rispondermi!”. Mai prima si era udito Re parlare con tono più incerto e minor convinzione.
“L’ho fatto, mio Re, per meravigliarvi", fu la risposta di Ambrogio, il quale esibiva ora un enigmatico sorrisetto, "Non è forse questo che fa il vostro artista di corte tutti i giorni, Sire, meravigliarvi? Io posso farlo anche ogni minuto, se me lo concederete. Vi garantisco che non conoscerete più la noia, con me”.
Aloisio smise finalmente di ridere: “Ma questo è inaudito, mio Re! Meravigliarvi? Ogni cosa può meravigliarvi, se glielo concedete, poichè ogni cosa è meravigliosa! Ogni suono, ogni odore… ma io cerco ogni giorno di farvi sognare con me, Sire, di portarvi con me nei miei infiniti viaggi della mente, mostrandovi cose che non si trovano da alcun'altra parte. Io voglio comprendere e imparare con voi, mio Re, non compiere gesti criptici volti solo ad un vile meravigliare, che invero meravigliare non è!”
Eppure il Re sembrava come sotto l’effetto di un incantesimo. “Mio buon Aloisio, amico mio”, iniziò, pensieroso, “non essere precipitoso, suvvia. Non vedi quanto sia nuovo ciò che il buon Ambrogio, qui, ha creato? Non provi anche tu un grande sconvolgimento? Nessuno, nessuno, si era mai comportato così in mia presenza. Eppure io non percepisco insulto alcuno! Vorrei, vorrei vedere altre cose di questo genere, comprenderne l’origine.” Qui sembrò riflettere per un secondo. “Ma sì, per Dio, c’è posto per più di un artista qui a corte! Ambrogio, fatemi l’onore di rimanere con noi, vi prego, meravigliatemi ancora.”
Aloisio era sconvolto, Ambrogio Martino raggiante; e tutta la corte annuiva con convinzione alle parole del Re, tutti volevano che l’artista li meravigliasse ancora e ancora.
Quello fu il giorno in cui iniziò il tramonto di Aloisio. Nessuno, adesso, sembrava più voler vedere le sue opere, passare del tempo a scoprire tutti i particolari e le minuzie dietro alle quali si celavano tante idee e tanti segreti. Il grande salone di pietra era diventato il regno di Ambrogio, ora, il regno delle sue folli trovate. Non passava giorno che l’artista non si rotolasse per terra, o prendesse una dama a capocciate, o leccasse un orecchio a qualcuno. Faceva tutto parte della sua opera d’arte, diceva.
E le opere di Aloisio, sole, rattrappivano.


Marghe/ElfoMiope

L'arte della guerra


Una strana storia sulle parole arte e meraviglia.

La cella puzzava di umido e muffa. Un debole filo di luce passava attraverso una grata sulla parete, illuminando l'ambiente. L'uomo, rannicchiato in un angolo, osservava la lenta danza dei corpuscoli di polvere che svolazzavano sotto la luce, senza tuttavia vederla davvero. Era un tipo massiccio dalla folta barba incolta, segno del fatto che si trovava in quel luogo da un tempo sufficientemente lungo, ma non eccessivo visto che sembrava ancora in forze. I vestiti erano stracciati e sul corpo portava segni di violenze, lividi e tagli più o meno recenti, dei quali però non sembrava nemmeno accorgersi come se in vita sua avesse subito di peggio. Ad ogni modo, il prigioniero nella cella in quel momento non se ne sarebbe comunque curato, poichè per la prima volta nel corso della sua lunga esistenza stava riflettendo.
Ascoltando le ritmiche pulsazioni del suo cuore, osservava con un senso di crescente meraviglia i pensieri prendere forma nella sua mente, liberi, ma soprattutto suoi. Fuori da quella cella e in un'altra vita, era stato un soldato e i soldati hanno l'ordine di non pensare, ma solo di obbedire.
Era così assorto da non rendersi conto del forte formicolio che partendo dai piedi si stava espandendo in tutto il corpo, un atto di ribellione delle sue membra per essere state costrette tanto a lungo in una scomoda posizione. Non vedeva più nemmeno i topi che squittendo giravano per la cella e che in un altro momento avrebbe cercato di catturare. Ciò che invece scorreva dietro ai suoi occhi erano le immagini della sua vita passata.
Lui era stato il migliore, il più grande spadaccino che il mondo avesse mai visto. Non solo grazie alla forza che madre natura gli aveva dato, ma anche grazie al duro addestramento che si era imposto: la sua parola d'ordine era stata disciplina. Altrimenti, come avrebbe potuto arrivare fin dove era arrivato? Come avrebbe potuto un semplice ragazzino di campagna scalare i vertici dell'esercito e diventare il generale supremo? Per un istante si rivide a sedici anni, con un sacco di tela in spalla e quattro stracci addosso, mentre varcava sotto gli occhi vigili delle guardie il grande cancello di Tharia, la capitale dell'Impero. Risentì le voci della folla accanto a lui e gli odori della città, un misto di tanfo e profumi che lo aveva stordito.  Ricordò come si era diretto subito alla caserma e si era arruolato, guardando negli occhi gli ufficiali sfidandoli a fermarlo. Nessuno l'aveva fatto, perchè a quel tempo avevano bisogno di chiunque fosse disposto ad entrare nell'esercito. La guerra aveva già falciato innumerevoli vite e c'era sempre bisogno di carne fresca da mandare al macello. Per qualche mese l'avevano allenato e lui aveva mostrato a tutti le sue abilità: non c'era una sola arma che non riuscisse ad usare al meglio, non c'era tecnica che non apprendesse e lentamente iniziò a scoprire di essere più abile di molti degli ufficiali. Non seppe mai se fu per invidia o per necessità che lo inviarono in battagia prima di tutte le altre reclute, sta di fatto che pochi mesi dopo il suo arrivo in città si trovò armato di tutto punto schierato in mezzo alla fanteria a caricare l'esercito nemico. E fu quello il momento che cambiò la sua vita.
Nel mezzo delle grida, fra il furore e la paura che facevano muovere l'esercito schierato come un sol uomo, un istante prima che i due schieramenti cozzassero con un fragore assordante, lo vide. Vide la sua prima vittima, un uomo più grande di lui che impugnava una lunga lancia e che correva dritto incontro. Risentì la scarica elettrica che gli era corsa lungo la schiena, ma ancor di più rivide gli occhi del suo avversario, colmi di rabbia e di dolore. Una rabbia che tuttavia non sembrava diretta verso il nemico, bensì verso sè stesso, come se si odiasse per il fatto di trovarsi lì, impugnando quella maledettissima lancia, costretto a uccidere. L'ira dell'uomo sapeva di terra bruciata, di una casa perduta, di racconti davanti al camino: era la furia di colui che che cerca la morte.
Con un movimento fluido, il ragazzo piantò la lancia nel petto dell'uomo e senza mai smettere di guardarlo negli occhi, gli sembrò che l'avesse sollevato da un grande peso. Durante quello scontro uccise molti altri uomini, sempre cercando di scrutare nei recessi del loro animo. E uccise ognuno di loro nel modo in cui essi sembravano chiedergli di farlo perchè se proprio dovevano morire, era giusto che se ne andassero a modo loro.  
Combattè innumerevoli battaglie dopo di quella e il suo modo di uccidere divenne un'arte. Che si mostrasse pietoso o crudele le sue vittime cadevano quasi con un sorriso e fu così che da soldato divenne ufficiale, da ufficiale sergente fino a ritrovarsi generale supremo dell'esercito imperiale.
Per lunghi anni servì fedelmente l'imperatore e così continuò a fare quando salì al trono suo figlio. Non era importante domandarsi che persona fosse e nemmeno se gli ordini che gli impartiva fossero giusti o no. Semplicemente dovevano essere eseguiti nel migliore dei modi. E se i provvedimenti del sovrano causavano malcontento nella popolazione, lui doveva essere il primo a difendere il potere imperiale soffocando le ribellioni che iniziavano a nascere in tutto l'impero. Ma benchè il suo talento e le sue capacità fossero grandi, nulla potè contro il tradimento di alcuni dei suoi uomini che fecero entrare in città l'esercito dei ribelli, aprendo loro le porte.
Lui era riuscito a salvare l'imperatore, ma era stato catturato dai ribelli. Lo avevano gettato in quella cella e torturato nel tentativo di estorcergli ciò che sapeva. Non aveva parlato e di tanto in tanto aveva visto al fianco dei suoi torturatori qualcuno di coloro che lo avevano tradito che tuttavia non aveva avuto il coraggio di guardarlo negli occhi.
E l'indomani sarebbero venuti a prenderlo per condurlo al patibolo.
Un sorriso stanco apparve sul volto del prigioniero. La cosa più strana era che nonostante tutto ciò che aveva fatto e che gli era successo, non riusciva a provare nulla: nè rabbia, nè dolore, nè desiderio di vendetta. E nell'arco di tutta la sua vita, non aveva mai sentito nulla. Solo nel momento in cui uccideva provava qualcosa: si sentiva utile. Aveva l'impressione di compiere qualcosa di necessario, non per sè stesso, ma per gli altri. Coloro che aveva passato a fil di spada, gli erano sempre sembrati desiderosi di smettere di vivere e ciò che aveva fatto era stato accontentarli. La sua in effetti, non era stata un'arte di uccidere, bensì un'arte della misericordia secondo il suo punto di vista.
Ma non aveva nemmeno provato a spiegarlo ai suoi carcerieri, non avrebbero capito. Nemmeno lui stesso si capiva completamente, del resto. Non rimaneva che una sola cosa da fare.
Ignorando le proteste dei suoi muscoli anchilosati, il prigioniero si alzò in piedi e raggiunse la porta della cella.
"Guardia!" esclamò con la voce arrochita dalla sete e dal poco uso.
Con una mano battè sulla porta e chiamò nuovamente.
"Cosa vuoi, bastardo?" rispose una voce dall'esterno. Nonostante le dure parole, il tono della giovane voce era titubante, come se colui che aveva parlato fosse in preda ad una lotta interiore.
Il prigioniero riconobbe la persona che aveva parlato e tirò un sospiro di sollievo. Era uno di quelli che lo avevano tradito: forse avrebbe accettato di fare ciò che gli avrebbe chiesto, se avesse fatto leva sul suo senso di colpa.
"Guardia, ho un ultimo desiderio." Rispose con voce affannosa e stanca "L'ultimo desiderio di un condannato."
Ci fu un attimo di silenzio, in cui avvertì l'indecisione della guardia che infine rispose:
"Parla. Se possibile sarai accontentato."
Il prigioniero si appoggiò alla porta cercando di non scivolare a terra.
"Vorrei..." disse con voce fioca "Vorrei che mi fosse concesso di radermi: domani ci sarà la mia esecuzione e preferirei morire da soldato. E nessun soldato, in nessun momento della sua vita ha la barba lunga."
Incrociò le dita e attese la risposta della guardia.
"Mi chiedi di darti una lama con la quale potresti ucciderci quando verremo a prenderti domani, mi credi forse così sciocco?"
"No, nient'affatto. So bene che non sei uno sciocco soldato Smithwick." Il prigioniero si godette l'effetto che le sue parole avevano avuto sulla guardia. Sapeva che il ragazzo era trasalito, non si sarebbe mai aspettato di essere riconosciuto. "Ti do la mia parola d'onore che domani, quando verrete a prendermi, non vi verrà torto un capello. Sai che non ho mai tradito la parola data. Ti chiedo solo un rasoio e uno specchio, ti prego."
Pronunciò l'ultima parte della frase con tale intensità da stupire perfino sè stesso.
Trascorsero lunghi attimi in cui non ci fu risposta, poi il giovane rispose in un sussuro:
"Non volevo che succedesse questo, generale. Non volevo tradirvi! Posso portarvi fuori da qui, ma vi prego perdonatemi!"
 Il giovane sembrava sull'orlo delle lacrime, ma il prigioniero lo azzittì.
"Se vuoi davvero aiutarmi e farti perdonare, dammi ciò che ti ho chiesto. Ti prometto che andrà tutto bene."
"Agli ordini, generale!" disse la giovane guardia con voce rotta e si allontanò lungo il corridoio.
Ascoltando il suono dei passi che si affievoliva, il generale si lasciò cadere in terra, sollevato. Era fatta, ci era riuscito. Ora non doveva fare altro che aspettare.
Dopo quello che al prigioniero sembrò un tempo infinito, il ragazzo tornò e facendo scorrere lo sportellino che usavano per passargli il cibo, fece scivolare nella cella il rasoio e un malridotto frammento di specchio.
Non appena fu certo che il giovane si fosse allontanato, prese specchio e rasoio e si mise seduto nel punto più luminoso della cella: per quello che stava per fare, aveva bisogno di vedere chiaramente. Tenendo in una mano il rasoio e nell'altra lo specchio osservò il riflesso dei suoi occhi: un volto stanco e segnato gli ricambiò un pallido sorriso. Ora sapeva, non gli serviva altro. Con un sorriso sulle labbra, e un gesto fluido del braccio, si tagliò la gola.
Per la prima ed ultima volta nella sua vita, aveva agito di testa sua. Un fiotto di sangue uscì dalle sue labbra, congelando in eterno il suo sorriso.

Cami/Bradipo

giovedì 7 giugno 2012

Bardi

Dame e Cavalieri,  bambini di ogni età.
Non narrerò una storia, ma incredibile realtà.
La vostra Margherita, scrittrice occasionale
è stata appena inclusa in un ebook niente male;
Mettendosi in combutta con altri bravi bardi
Cantato ha lei di cani, sia di razza che bastardi.
A chi di barboncini o di bulldog vuole sapere
Consiglio questo link, tosto andatelo a vedere!

martedì 5 giugno 2012

dueparole4

Le prossime parole, scelte da mia "maaadreeeeeeee", sono:

-Arte In senso lato, capacità di agire e di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche, e quindi anche l’insieme delle regole e dei procedimenti per svolgere un’attività umana in vista di determinati risultati


-Meraviglia Sentimento vivo e improvviso di ammirazione, di sorpresa, che si prova nel vedere, udire, conoscere cosa che sia o appaia nuova, straordinaria, strana o comunque inaspettata

Buona scrittura!
FeFe

Il campeggio - dueparole3 FeFe

Ecco qui in ritardo la mia storia. Sarà per lo stress pre-esami (ne ho uno tra qualche ora), ma non mi andava di scrivere una storia "carina e coccolosa", così mi sono buttato su qualcosa di più macabro.. spero piaccia ugualmente! :)

Il campeggio
Giulio e Giulia partirono per un campeggio, durante il fine settimana. Arrivarono il venerdì verso sera nel campo. Si sorpresero non trovando altri villeggianti oltre a loro, e, svuotando la macchina da zaini e tenda, si diressero verso la casupola del custode. Anche lì sembrava non esserci nessuno. Decisero allora di piantare lo stesso la tenda, e di cercare i guardiani il giorno seguente.
Una volta sistemati, misero a scaldare la cena portata da casa su di un fornelletto a gas, e nel frattempo Giulio, che era un musicista molto apprezzato in città, tirò fuori la sua chitarra ed iniziò a suonare e cantare per passare il tempo.
Intorno a loro c’era solo oscurità. Non si vedeva nulla e nessuno. Il suono delle loro voci e del loro strumento rimbombava per tutta la riserva. Ad un tratto sentirono un rumore alle loro spalle, ed una voce maschile li fece sussultare. “Vi sembra normale fare tutto questo baccano? Mi avete svegliato! E poi chi siete e cosa ci fate nel mio campeggio?” sbraitò un uomo sulla cinquantina, dall’aspetto trasandato. Dalle sue parole intuirono che doveva trattarsi del guardiano. “Ci scusi.. –iniziò Giulio- ma arrivati qui abbiamo bussato alla porta della sua abitazione, ma non ci ha risposto nessuno ed abbiamo pensato di sistemarci e contattarla domani..”. “Che maleducati! Stavo dormendo, è per questo che non vi ho sentito! Avreste dovuto aspettare..” “Non essere così scorbutico come al tuo solito!” lo interruppe una signora che si fece avanti dall’oscurità “perdonatelo -continuò la donna in tono gentile- è molto che non viene nessuno a campeggiare qui, e pensavamo fosse qualche malintenzionato.. naturalmente siete i benvenuti! Se non avete già mangiato, lasciate che vi offra qualcosa, per farmi perdonare del comportamento di mio marito. Prepariamo delle ottime salsicce qui, dovete assolutamente assaggiarle!”.
Giulio e Giulia, che nonostante il pasto erano ancora affamati, accettarono l’invito della donna, e, dopo essersi scusati nuovamente ed essersi presentati, entrarono nella casupola.
Sembrava disabitata, era in uno stato di abbandono, come se nessuno ci avesse vissuto per anni, e c’erano solo sporadiche tracce della presenza umana, come un piccolo fornello ed un frigo degli anni cinquanta che rinfrescava il cibo a mala pena. Da lì la donna tirò fuori un paio di salsicce, e le mise sul fuoco. “Da dove venite?” chiese gentilmente la signora per rompere il silenzio. “Dalla città qui vicino –rispose Giulia- ci piace andare in campeggio, ma purtroppo siamo pieni di impegni di lavoro e così ci siamo potuti concedere una piccola pausa per il fine settimana.” “Capisco.. sì, effettivamente la grande città è un posto orribile.. pieno di incomprensioni e gente pronta a giudicarti per qualsiasi cosa non rispetti i loro canoni ‘tradizionali’. Qui in campagna invece nessun essere umano si intromette negli affari che non lo riguardano, le persone vengono per rilassarsi e poi se ne vanno dopo poco. Ed inoltre possiamo permetterci di allevare i nostri animali senza problemi. È con la loro carne che facciamo le salsicce, sentirete che buone!”. Giulio e Giulia si scambiarono un’occhiata interrogativa: non avevano infatti visto alcun animale da quando erano arrivati. Nel frattempo l’olio iniziò a sfrigolare e dopo poco le salsicce erano pronte. La moglie del guardiano le servì agli ospiti, mentre il marito, che era rimasto in silenzio da quando la donna lo aveva rimproverato, fissava la coppia con uno sguardo penetrante, come se li studiasse a fondo.
“Buone! Complimenti, non ne ho mai mangiate di questo tipo!” disse Giulio. “Di quale animale sono?” domandò Giulia. “Eh, mia cara, è un segreto professionale” rispose la donna strizzando l’occhio alla ragazza. Dopo che ebbero finito il pasto e ringraziato i guardiani, la coppia si coricò nella tenda, e passarono una notte di incubi, forse dovuti al mal di pancia causato dalle salsicce.
La mattina dopo Giulio e Giulia si svegliarono tardi. Avrebbero voluto fare una passeggiata nel bosco, ma si sentivano troppo stanchi. Rimasero allora nei sacchi a pelo a parlare della sera precedente, scambiandosi opinioni sulla strana coppia. “Molto gentili, per carità, però mi incutevano terrore.. Hai visto come ci guardava lui?” disse Giulia. “Sì, sono strani, ma credo sia perché il campeggio è deserto. Evidentemente gli affari vanno male e questo li rende nervosi..” rispose Giulio, che poi aggiunse “Penso che per ringraziarli andrò a suonargli una canzone. In fondo loro ci hanno offerto quello che avevano preparato, ed io li ricambierò con ciò che so fare meglio! Vado subito a vedere se sono svegli.. mi sono stufato di stare in tenda..” “No dai sono stanca.. andiamoci dopo..” “Non ti preoccupare, tu resta pure qui, io mi do una sistemata e vado, quando vorrai mi raggiungerai lì” e così dicendo Giulio uscì dalla tenda con la sua chitarra in mano, dirigendosi verso la casa.
Giulia non aveva proprio voglia di alzarsi, e si riaddormentò. Si svegliò nuovamente che era quasi il tramonto. Giulio non era lì. Evidentemente era rimasto tutto il giorno dai custodi. Decise di alzarsi e raggiungerlo.
Bussò alla porta, ma nessuno le rispose. Notò allora che era aperta e, chiedendo permesso, entrò. La stanza da pranzo era vuota, così Giulia si diresse verso la stanza da letto, anch’essa senza nessuno. Tuttavia la ragazza vide buttata in un angolo la chitarra di Giulio, e si accorse che dietro allo strumento c’era uno spiraglio di luce. Avvicinandosi, scoprì che si trattava di una porta semi nascosta. La aprì ed entrò nel locale adibito a macelleria, dove erano tenuti tutti gli strumenti per fare le famose salsicce assaggiate il giorno prima. Ma Giulia notò con raccapriccio che la carne con cui venivano fatte le salsicce non era di animale, bensì di.. essere umano! Nel locale c’erano infatti resti di corpi: braccia, piedi ed altre parti del corpo giacevano a terra intorno alla macchina per triturare.
La ragazza ebbe un mancamento, e vomitando, svenne. Prima di chiudere gli occhi riuscì a vedere dietro di sé il corpo di Giulio, ormai senza vita. Capì in quel breve attimo che anche lei non avrebbe più riaperto gli occhi, e che la sua carne sarebbe stata servita ai prossimi sventurati ospiti del campeggio.

FeFe

domenica 3 giugno 2012

Nonna Teodonia


 Appena in tempo ho rispettato la scadenza! muahahahah!


Rocca Merletta, piccolo centro toscano, è la meta ideale per chiunque voglia godersi un piacevole soggiorno nella salubre aria di campagna, senza perdersi il fascino di un luogo imbevuto di storia. Il paesino, abbarbicato su di un monte, è stato costruito nel 1253, per volontà del Conte Rasponi, il signore di quelle terre. La leggenda vuole che al conte Rasponi sia da attribuire la paternità della chitarra, strumento che presentò a corte e che stregò sua maestà a tal punto da fruttare a Rasponi il titolo nobiliare e le terre attorno a Rocca Merletta. Infatti sulla cima del monte sorge la rocca,da cui il paese prende il nome, una costruzione in roccia tufacea che nel corso del tempo è stata erosa dalle intemperie che l'hanno modellata trasformandola in una sorta di gigantesco merletto di pietra Per secoli è stata la residenza della famiglia Rasponi, fino alla fatidica data del 23 luglio 1544, quando l'allora conte Felberto Rasponi, fu trovato morto nella sua stanza da letto con un'espressione di gioia sul volto. Non vi era alcun segno di effrazione, solo un forte aroma di pepe che permeava l'aria. Il delitto non fu mai risolto e ancora oggi numerosi turisti si fermano ad osservare la rocca e in paese è una delle storie preferite da raccontare davanti al camino. Rocca Merletta è inoltre famosa per le sue salsicce secche, che vi consigliamo di assaggiare.”
Nonna Teodonia scorse rapidamente la descrizione di Rocca Merletta scritta sulla guida di un giovanotto, che era completamente nascosto dal giornale che stava leggendo. Con una manovra da commando la vecchina si era portata alle sue spalle, sottraendogli abilmente il libro che aveva appoggiato sul tavolino e che ora osservava interdetta. Gli occhi acuti di Nonna Teodonia avevano individuato da tempo il ragazzo, che portava scritto sulla fronte la parola “turista”. Infatti, appena arrivato al bar della piazza, di cui la nonna era cliente fissa (beveva un bicchierino di rosolio ogni due ore circa), invece di dirigersi al bancone per ordinare si era accomodato al tavolino aspettando di essere servito. Dopo i primi dieci minuti di stoica attesa, il giovane aveva iniziato ad allungare il collo cercando di attirare l'attenzione del barista, che senza fare una piega aveva continuato a sistemare le bottiglie dietro al bancone. In effetti, nulla avrebbe potuto schiodare il barista dalla sua occupazione: non a caso in paese l'avevano soprannominato Mulo, per la sua cocciutaggine e per la forza dei suoi calci. Mai Mulo aveva servito al tavolo qualcuno e mai l'avrebbe fatto. Sempre più spazientito, il povero e ignaro giovane continuava a sperticarsi chiedendo un menu, mentre nonna Teodonia lo osservava con un misto di divertimento e ammirazione, visto che ben pochi avrebbero mai osato sfidare Mulo in quel modo. Ad un certo punto il turista aveva deciso di provare ad ignorare il barista, così come il barista ignorava lui, svanendo dietro il giornale. Era stato in quel momento che la nonna gli aveva rubato la guida. Probabilmente il ragazzo non avrebbe mai mostrato una tale ostinazione se avesse saputo con chi aveva a che fare, tuttavia l'espressione decisa del giovanotto convinse la nonna che meritava un premio prima di essere steso da un calcio di Mulo.
Afferrò una sedia e si sedette, sbattendo la guida del giovane sul tavolo. Il turista, trasalendo, sbucò da dietro il giornale per trovarsi faccia a faccia con nonna Teodonia, che senza perder tempo disse:
La tua guida è incompleta, giovanotto, fossi in te mi farei ridare i soldi. Chiunque l'abbia scritta ha dimenticato la parte migliore della storia!- Al ragazzo non fu lasciato neppure il tempo di fiatare che la nonna riattaccò a parlare:
Considerati fortunato che ci sia io a colmare le tue enormi lacune, figliolo! È arrivato il momento di posare in terra quel giornale e la dose di presente che porta con sé perchè sto per iniziare a raccontare!” Lanciò al giovane il tipico sguardo da “sarò-anziana-ma-non-mettermi-alla-prova” e lui mise obbedientemente sul tavolo il giornale, incrociando le braccia sul tavolo in silenzio.
Dunque” nonna Teodonia si schiarì la voce e iniziò a parlare:
Pare che il 1544 fosse stato un anno molto freddo, anche se ai fini della nostra storia è irrilevante. Ciò che conta è che Rocca Merletta era governata dal conte Felberto Rasponi, ottimo nobile e pessima persona. Ormai da cinque anni governava incontrastato, dopo essere succeduto a suo padre, che era morto in un incidente di caccia, durante una battuta a cui il figlio non aveva partecipato, ma in sua vece aveva inviato un abile cacciatore per dare una mano all'anziano genitore. Nessuno sa spiegarsi come mai il cacciatore sia diventato in seguito cavaliere, ma i pochi che videro la ferita di Rasponi padre affermarono di aver visto una zampata di orso identica ad un colpo di spada. Ma questa è un altra storia.
Sta di fatto che in quanto conte, aveva il diritto di importunare i cittadini di Rocca Merletta come meglio credeva, anche se fino al mese di giugno del 1544 si era limitato ad opprimerli solo con tasse e sporadiche impiccagioni. Tuttavia, capitò che nel mese di giugno, il conte Felberto Rasponi decidesse di andare in serata a fare una passeggiata per i vicoli di Rocca Merletta, godendosi l'aria profumata di fiori, che erano stati piantati lungo tutte le tortuose stradine del paese per ammortizzare il miasma dovuto ai pitali che venivano svuotati dalle finestre. Quando il conte si trovò a passare per Vicolo Torto, la stradina che sale dietro il campanile, quella dove oggi sta il ferramenta, fu colpito in pieno dallo schizzo di uno dei tanti vasi di merda, svuotato dall'edificio sotto cui stava. Furente, il conte guardò in alto, pronto a proclamare pene terribili per lo stolto che aveva osato tanto, ma si trovò incapace di parlare, perso negli occhi blu di una ragazza tondetta che chiedeva perdono. Felberto si limitò a farle un sorriso ebete e facendole segno di non preoccuparsi si avviò fischiettando verso il palazzo. Qualche ora dopo, sdraiato nel suo letto su di un materasso di piume e con la borsa dell'acqua calda sui piedi, il conte si rese conto di essere innamorato. Tuttavia giovanotto, come ben saprai l'amore di questo genere di persone muta spesso in ossessione, specie se la loro amata li rifiuta e così accadde, poiché la giovane in questione era già promessa al figlio del macellaio e anche molto innamorata.
Il conte le provò tutte, dalle promesse di amore eterno alle minacce più oscure, ma la giovane non cedeva. Dopo due settimane di assiduo corteggiamento da parte del conte e tentate violenze il figlio del macellaio decise di non poter più sopportare un affronto simile: conte o no doveva pagare. Il ragazzo non era una cima, ma si rivelò abbastanza furbo da ordire un piano, di cui mise a parte la sua futura sposa. Lei infatti, avrebbe dovuto fingere di accettare la proposta di matrimonio del conte e al resto avrebbe pensato lui. Infatti, la sua famiglia era a conoscenza di un'antica ricetta di salsicce, dal sapore così intenso e incredibile, tanto da creare un tripudio di sapore nella bocca di chi le mangiava, che tuttavia faceva impazzire le papille gustative sovrastimolando a tal punto i sensi da uccidere il povero assaggiatore. Dopo una preparazione quasi alchemica il giovane riuscì a creare la terribile salsiccia assassina e la nascose con cura aspettando il momento adatto.
Così, mentre il conte era sempre più infatuato dalla sua bella, il giovane macellaio riuscì a corrompere un servo, che nella notte del 23 luglio del 1544, servì al suo signore la salsiccia assieme ad una ricca porzione di verdura. Volle il caso che quella sera il conte avesse voluto cenare in camera da letto e fu così che nessuno vide ciò che accadde fra quelle mura. E quella fu la fine di Felberto Rasponi e i due giovani promessi si sposarono prima dell'autunno. Inoltre, grazie alle loro doti combinate, pare che siano riusciti a mitigare gli effetti della salsiccia mortale, creando la ricetta che ancora oggi viene seguita per le famose salsicce secche di Rocca Merletta.”
Nonna Teodonia smise di parlare e guardò il giovane che la fissava a bocca aperta.
Fece per parlare, ma la nonna lo anticipò ancora una volta.
Spero che tu non stia per chiedermi se questa storia è vera, ragazzo! Perchè se una storia è buona rimane tale a prescindere se è vera o meno. Pensa piuttosto se ti è piaciuta, se ti ha aperto gli occhi.”
La nonna si alzò e fece per allontanarsi e tornare al suo tavolo, ma poi si girò nuovamente verso il ragazzo che guardava perplesso la sua guida rigirandosela tra le mani. La nonna gli sorrise e aggiunse:
Ricordati, non si viaggia solo con la testa. Sei venuto qui per vedere, non lasciare che una guida ti copra gli occhi.”
Il turista poggiò il libro sul tavolo e annuì ricambiando il sorriso.
Grazie.” disse poi a nonna Teodonia.
Nonna Teodonia ridacchiò sotto i baffi quando vide il giovane filarsela rapidamente evitando per un soffio uno dei calci di Mulo. Era stata una bella mattina.

Cami/Bradipo

giovedì 31 maggio 2012

A Tale of Gnomes


Hello my fluffy friends! As you might already tell, today I've decided to write my story for Dueparole3 in English. I didn't do it cause I wanna show off how cool and awesome and sunshiny I am: I did it cause this time it was Mattes (also known as Meepdude) to choose the words and I thought it'd be nice if he'd be able to read my story as well. 
NOW YOU NEED TO, BY THE WAY!!!  C:
The story was inspired by something I've read, about legends from the Indigenous Australians. Their gods created all the world by singing names, I guess. Well, I find this pretty damn IMAGINATIVE!
I'd just like to make one more thing clear: Brad and Fefe, YOU DON'T NEED TO WRITE IN ENGLISH! DON'T DO IT, YOU FOOLS! Fuggite, sciocchi :D
I did it for my pressssssciooussssss.

Ok, one last note: in English my dictionary and language-skills shrink down to the size of a strawberry. Just sayin' :)


                                                                      A TALE OF GNOMES

Mr. Sausage was very annoyed by now, as he slammed the door closed behind him to enter the reassuring shadows of his dwelling.
“Furf furf…cretin…furf furf”, (“furf”, far from having any meaning at all, is simply a multipurpose Gnomish word, useful to replace any other one or to gain time when ignoring an answer. “Cretin”, on the other hand, is an insult which later became part of the Human language as well).
The many fanciful insults the annoyed Gnome was now muttering between one “furf” and the other were meant for his neighbor, Mr. Slimy. Owing his name to his runny nose*, Mr. Slimy loved sitting for hours on the doormat in front of his mushroom-home, hoping in the transit of some neighbor he could reproach for anything he could think of.
“Furf…furf! What kind of idiot could ever live in a mushroom, anyway?”, Mr. Sausage kept going as he moved to his laboratory, casually grabbing and shaking different odd-shaped tools. 
A few minutes earlier that morning, Mr. Slimy had intercepted him on his way back from the hunt for magic metals and rocks to use in the lab and had sprung up from the doormat, sprinting to be fast enough and get on Mr. Sausage’s path before he could carry on and flee.
“Mr. Sausage? Got a minute, Mr. Sausage?”,  he had called, sniffing repeatedly and staring ostentatiously at our Gnome’s big round belly.
The owner of said belly had sighed and, as always, painfully decided not to run the neighbor over with his wheelbarrow. Instead, he stopped and answered Slimy’s impolite stare with a red face (just like a sausage’s, if only sausages would have faces!) and frowning eyebrows.
“What is it you want today…furf?”. In this case, “furf” had clearly taken the place of something much worse**.
“Why, nothing much, of course!”, cried the neighbor, sniffing louder than ever. “Just a little remark on last night, my friend, a little remark…that laboratory of yours, you know. I could swear I’ve heard odd sounds coming from it around two in the morning, my dear Sausage.  And, rabbits eat my house if I lie, a thin, wriggly something fell on my roof around sunrise, for I have clearly heard it going ‘wab wab-wab wab’ as it bounced and disappeared somewhere behind my mushroom”.
’Wab wab’!”, laughed Mr. Sausage, his face ‘sausage-er’ than ever. “That stuff you’ve got in your nose must’ve gotten to your brain after the last two hundred years of sniffing, must be. Now if you excuse me, I gotta bring these metal scraps up to my house”.
That said, he had outflanked an outraged and sniffing Mr. Slimy and walked the few more gnomecentimeters left to his tree house. Then, after hoisting up the wheelbarrow through a complicated mechanism of ropes, he had climbed the little ladder leading to the wood-carved door in the tree-trunk, in which he had disappeared.
This is where we had begun our story, with Mr. Sausage being very annoyed and walking in the house and slamming the door and picking up tools at random, and doing all that stuff old Gnomes do when they’re very angry, especially if they’re quite grumpy-natured, too.
But as he felt calm again a few seconds later, he started reasoning quickly, for quick were his wits. He knew he had no time to be restless in his own tree-house: what his neighbor had said was, for once, true. Mr.Sausage had understood exactly what the ‘wab-wabbing’ thing was, he had been looking for it that morning after losing it and he needed it back.
Quickly, he opened the backdoor (which was also some kind of secret door: no other Gnomes knew of it, at least not that nosy old Slimy; and that alone was enough),slid down the tree-trunk using an old rope and ran behind his neighbor’s mushroom-home, as sneaky as a round, red-faced Gnome could be. It didn’t take long until he sighted the shining of metal among the tall grass.
“There! There it is! Furf furf furf…” Furfing in excitement went the old Gnome, and picked up a long string of the shiniest metal: very thin it was, and flexible, and at a closer look it was possible to notice it was made of different tinier strings, braided together to form one.
Mr. Sausage rolled up the string (which made ‘wab-wabbing’ sounds as it wobbled threateningly through the air), put it in his pocket and climbed up the rope once more. As he closed the backdoor behind him, he looked around to make sure nobody was observing him: there was no one to be seen. The time was right to ultimate his invention!
First of all, he fed the Caterpillar*** (“why, thank you!”). Then, hasty as ever he headed once more to the laboratory where, especially in the last year, he used to spend most of his time. The hands shaking in expectation, he reached under the desk and picked up a strange object, whose equals had yet never been seen in the whole World; at least, not as far as Gnomes knew. This object had pretty much the curvy shape of a hourglass, but it was made of metal and its sides were quite flat. Something like a long, flat wooden stick started from the center of the curves and went straight out of the metal shape, culminating with a larger rectangular tip. Five strings ran from this tip to the other end of the fine wooden stick. Some of these strings were made of a strange, transparent material; but two of them looked shiny and braided and metal-like, just like the one Mr. Sausage had just picked up from the field.
Sweat dropped down his red face as he tied the last string close to the two metal ones. With those sausage-like fingers he had, for some minutes it seemed highly unlikely that he would succeed in this task. But then, with a cry of victory, the Gnome jumped up from his stool and shook the complete object in the air. In that moment a brave sunray, which had found his way through the only tiny window, fell upon the instrument: and the Guitar shone gloriously in the morning light. For this is how Mr. Sausage had secretly decided to name his invention: Guitar.
And this Guitar, mind you, was a very magical instrument. It was made of the legendary metals found in the Lizard Cave, a nearby site well known by all Gnomes in which no one dared venture, for many were the legends told about it. Often, in stormy nights, when the children were asleep, the inhabitants of the Gnome village would whisper of bloody battles, dead Gnome heroes and terrible fire-spitting lizards with wings.
“Furf furf…tales for idiots!”, is what Mr. Sausage had always said about it. “Nothing exists if I can’t imagine it”. And maybe he was right, cause being a very imaginative Gnome as he was, he had never been able to picture those fire-spitting lizards in his head. For this reason, the whole story was furf. And for this same reason, many a time he had entered the cave and extracted the precious minerals and metals.
Mr. Sausage already had an idea of the magic this Guitar of his could produce. He amorously caressed the strings with the right hand. Then suddenly, after grabbing the wooden handle quite tight with his left hand and spreading his fingers all over it in a random fashion, he hit all the strings very fast with his right. At the same time he sang ‘Hairy-footed brush!’ in ancient Gnomish.  And, sure enough,  a beard-brush with hairy wooden feet appeared out of thin hair and sat, wooden, on the floor. The Caterpillar was now cautiously looking at the Gnome as if thinking he was a total furf.
But little did Mr. Sausage care. “YIPPEEEE!”, he shouted and, strapping the Guitar to his back with strings made of braided grass, he ran out of the backdoor again and down into the field. As soon as he disappeared into the wild nature that surrounded his tree, he grabbed the magical invention again and drew more music from it.
Mucus with a home!”, he called in ancient Gnomish, inventing a new creature. One second later, a huge odd animal with a shell on its back**** was laying on top of his neighbor’s mushroom-house. Slowly, showing evident satisfaction, it bit a piece of the roof off. Of course, Mr. Slimy’s slimy nose immediately appeared  at the window:
“Curses!!! This is gonna take weeks to fix! Mrs. Slimy!!!”, he sniffed and sniffed, while Mr. Sausage laughed behind the grass. But he was not an evil Gnome and in ancient Gnomish he kindly whispered to the snail that it’d better have a nice stroll somewhere else in the forest. So, still chewing on the juicy piece of mushroom, the snail left, leaving a shiny trail of slime in Mr. Slimy’s garden.
Mr. Sausage merrily followed the animal, dancing and playing, still getting obvious pleasure from his neighbor’s complaints echoing behind him. Every time he stroked the magical strings with his fingers, new inebriating sounds filled the air; every time he sang the name of an inexistent thing, it mysteriously appeared.
“I made it! I made it! Legless lizard!”,  he shouted and sang in excitement, so that a legless lizard***** appeared and immediately slithered away, a look of evident outrage on its face. 
All day until dusk the Gnome ran like this in the forest, screaming new names, his guitar proudly singing its existence to the world. This was the time when countless objects, plants and creatures were born; some of them were destined to exist for hundreds, thousands of years, others just made a short appearance in the constant flowing of time.
Until at one point, as the sky turned red and the sun almost disappeared behind the enormous trees, Mr. Sausage sat thoughtfully on a stone. He was panting after all that running, but little did he care: all he could think of now was one more thing, something he had always desired. He was wondering if it’d be fair to ask it to the magical instrument he had put into existence.
“The hell!”, he said out loud in the end. “What could go wrong? What a bunch of furf!”
One last time he stood up, and struck the strings with his right hand. As a low pitched note vibrated from the Guitar, he sang: “Me being tall, and thin, and fair skinned! And a beautiful lady of the same size by my side!”.
He understood this was not what the Guitar was made for when something that felt like an earthquake unleashed somewhere behind him. Painfully conscious of still being short, red and fat as always, Mr. Sausage turned and thus witnessed the event that would change Earth forever: there were two huge creatures, standing among the trees. Their shapes had something to do with those of Gnomes, yet they were different. First of all, those creatures were tall. Very tall. ‘Almost two meters’, Mr. Sausage thought to himself. Secondly, they were not round. Actually, they were much taller than wide, which alone is something too wonderful and unimaginable even in a Gnome’s wildest dreams. Last but not least, their skin was fair and they had no beard. This one feature at least was something in which, Mr. Sausage was sure, he resulted much prettier than them.
As the huge creatures moved staggering in the forest, our Gnome wisely decided it was time to get back home. In fact, he fled with as much dignity as possible, for a round little creature wearing a red pointy hat. 
By now, the readers might have understood that the two beings, born by mistake, were the first woman and the first man. Now, since that ancient time when a Gnome sang them to existence, their number has grown and their habits have changed, but still these creatures are nothing but women and men. For thousands of years they’ve thought of stories that would explain their own creation; all of them were great, all the Creators glorious. How fun it will be, when the kin of Humans will finally look down and see the Gnomes for the first time! How hilarious, when they’ll hear the ancient Gnome tales, and learn the truth about their origin! For Humans are like they are, and little would they fancy to hear that the one to whom they owe their very existence is no one else but our short, fat, red-faced Mr. Sausage!

                                                                     THE END

                                                                           …
It might also be that our readers have more interest in knowing what became of our Gnome, than what became of Humans.
Well, it will make everybody’s heart lighter to know that Mr. Sausage got to be very famous in the village, because of his marvelous invention. With his Guitar he created a yellow, light form of alcohol that would make everybody agree on subjects they wouldn’t normally agree on (‘beer’, I guess, was the name of this magical liquid), he made flowers grow tall in the gardens of kind-hearted Gnomes. In other words, from grumpy and furfy as he was, he turned into a friendly Gnome, and the sun shone upon his hairy smile. It didn’t take long before pretty Ms. Braids fell in love with him; and it took even less for Mr. Sausage to love her back!
 Today the two Gnomes and their Guitar live together in the old tree house. And now the house has two floors and no backdoor, and many windows bring the daylight into its former darkness, and three hairy Caterpillars can dwell and dine in its sun-lit rooms.




*Among Gnomes, the final name evokes some characteristic of the subject and is given with the coming of age, around the seventy-sixth birthday. Before, children and youngsters are just called with provisory names, or simply Furf.  
**It is therefore undeniable, how this word could be put into good use in the language of Humans as well.
***The Caterpillar is a green, worm-shaped insect with a thousand legs. The reason why he isn’t called just “worm” originates from his relationship with the Gnomes: it’s not uncommon for Gnome households to host, depending on the size of the house, one or more Caterpillars. These Caterpillars are treated like members of the family, they’re offered food and a home. All they need to do, in exchange, is to serve nine hours a day as pillars for the fragile buildings, which could otherwise collapse on themselves. Having a very small house, Mr. Sausage hosted only one Caterpillar.
****For Humans: snail.
*****Or snake, as it was later called.




Marghe/Elfomiope

mercoledì 30 maggio 2012

dueparole3

Le parole per le prossime storie, scelte dal mitico Matt, sono:

-chitarra Strumento musicale a corde, costituito da una cassa a fondo piatto a forma di 8, e da un manico ai cui cavicchi s’attaccano più corde (di solito 6), che il suonatore mette in vibrazione con le dita della mano destra o, talvolta, col plettro; è usata il più delle volte per accompagnamento, ma è anche strumento da solisti.

-salsiccia Carne suina (talora anche di cinghiale e, in alcune tradizioni locali, di oca o di carne bovina, equina, ovina), magra e grassa, tagliata a piccoli pezzi o triturata più o meno finemente, salata e variamente aromatizzata, e insaccata in budella di suino (oggi anche in tubi di sottile plastica flessibile e trasparente) di piccolo diametro, che vengono legate e divise a tratti mediante strozzature con spago sottile, in rocchi di misura variabile dagli 8 ai 12 cm, da mangiarsi crudi o cotti a seconda che siano o no stagionati.


Buona scrittura! :)
FeFe

Il gufo e la morte - dueparole2 FeFe

Ecco qui la mia storia, ovviamente in ritardissimo! E' un tantino lunga, e forse un pochino "voluta", per i continui esami che mi hanno tolto la gioia di scrivere, spero tuttavia che vi piaccia :)
Buona lettura!

Il gufo e la morte


Bruno era disteso sul letto, attendendo ormai la morte. Era stato un illustre politico, attualmente in carica di senatore a vita nel suo paese. Tanti anni di fatiche lo avevano ingobbito e la sua corporatura si era pian piano deperita. Era stato soprannominato “il gufo” per svariate ragioni: il suo attaccamento al denaro lo portava a sfregarsi spesso le mani unendole verso il petto, mossa che lo faceva assomigliare ad un gufo appollaiato su un ramo; il suo essere subdolo e manipolatore lo faceva agire soprattutto di notte; ed infine a causa dei suoi occhiali grandi e spessi.
Mentre era steso ripensava alla sua vita, sempre segnata dalla cupidigia e dell’avarizia. Pensava che non c’era nulla di male nell’aver intascato parecchi soldi pubblici mentre altri morivano di fame, peggio per loro che avevano fatto una scelta di vita sbagliata. Pensava che non c’era niente di male nell’aver accettato bustarelle per far vincere appalti o per bocciare o  far approvare una legge, tanto lui poteva fare ciò che voleva, era al di sopra della legge.
Ed ora era steso lì in attesa. Sì, Bruno sapeva che la nera signora sarebbe arrivata presto e l’attendeva, ma non con rassegnazione: egli voleva sfidarla per restare in vita ancora. Era infatti troppo legato ai beni che la carriera politica gli aveva concesso e voleva goderne ancora, specialmente in un periodo come quello della crisi economica, in cui molti stentavano ad andare avanti, ed osservare la gente arrancare, avendo egli denaro e potere, lo faceva star bene.
Stava per assopirsi quando un vento gelido entrò nella stanza oscurandone le luci.
Capì che il momento era arrivato e si sedette in attesa della sua nemica.
Dal buio più profondo emerse una figura slanciata e nera dal volto scarno e raggrinzito, senza occhi e con inquietante ghigno. Si fermò a un passo dal letto del politico e guardandolo dal vuoto delle sue orbite pronunciò il suo nome in un freddo sussurro.
Bruno ebbe timore per la prima volta in vita sua e non riuscì a proporre la sfida alla cupa mietitrice, ma dalla sua bocca uscì solo un balbettio “t-t-t-ti p-p-prego.. la-lasciami i-in v-vita!”.
La nera signora non si mosse ma parlò in maniera decisa “Sapevo che me lo avresti chiesto, misero omuncolo. Ebbene ti accontenterò, ma non per farti restare ancora chiuso nella tua reggia circondato dall’oro, ingrassandoti come un porco! Dovrai uscire e, girando per la città, dovrai trovare una buona ragione da fornirmi per lasciarti vivere ancora. Se la riterrò valida, allora ti concederò altro tempo su questa terra. Hai in tutto ventiquattro ore… Buona fortuna, mortale!”
Detto ciò scomparve. Le luci nella stanza si riaccesero e Bruno rimase per un attimo ancora tremante rannicchiato sul letto. “Trovare una buona ragione.. ma l’oro, il denaro, il potere non sono ragioni abbastanza valide?” si domandava il gufo. Dopo alcuni attimi, decise di vestirsi ed uscire, in cerca della buona ragione da fornire alla Morte al suo ritorno.
Erano all’incirca le tre del mattino ed era gennaio: faceva freddo.
Uscito dal suo palazzo, si diresse verso la stazione centrale della città. Nel tragitto incontrò soltanto alcuni ragazzi ubriachi che cantavano a squarciagola canzoni a lui ignote. “Che feccia! Sfaticati senza speranze che finiranno falliti come i loro genitori! Bleah!” pensò il gufo guardandoli con disprezzo, e continuò a camminare.
Arrivato alla stazione non trovò nessuno se non alcuni senzatetto che cercavano riparo dal freddo sotto le tettoie laterali dell’edificio. Si avvicinò verso di loro e li vide stesi e rannicchiati sotto un pezzo di coperta scucita mentre tremavano tentando invano di vincere il freddo. “Che ci fate qui? Non avete una casa dove andare?” urlò il gufo.
“No signore – rispose uno di loro - Siamo caduti in disgrazia. Non abbiamo più un posto dove vivere.” “Ma da dove venite?” domandò Bruno “Alcuni di noi sono di qui, altri sono stranieri, venuti in cerca di fortuna da terre lontane, ma hanno trovato solo altra miseria e disperazione” rispose un altro del gruppo, indicando alcuni barboni neri poco più in là, anche loro rannicchiati in un angolo. “E quindi vivete così? In mezzo alla strada?” “Sì, buonuomo, viviamo qui. Ogni tanto riusciamo a trovare rifugio in alloggi di fortuna, e quando possiamo mangiamo alla caritas”. Il gufo aveva sempre saputo dell’esistenza dei senzatetto, ma non si era mai trovato faccia a faccia con loro, e li aveva sempre considerati feccia dell’umanità; ora invece, ascoltando le loro storie e condividendo in parte la loro sofferenza, riusciva finalmente a capire la sofferenza. Rimase con loro fino all’alba.
Una volta spuntato il Sole, li salutò augurandogli buona fortuna per il futuro, ed allontanandosi si sentì cambiato.. Sentiva qualcosa dentro che non aveva mai provato prima e che non riusciva a capire..
Con questa nuova sensazione nel cuore, dopo aver deciso di cambiare zona per esplorare la città, scese le scale della metropolitana. Entrò in un treno affollato, dove a malapena si respirava e sentì le proteste dei pendolari, che lamentavano di essere stipati su carri bestiame come animali, di non avere il minimo rispetto da parte dei governanti, e che non sopportavano più questo tipo di vita. “Effettivamente – pensò il gufo – non riuscirei nemmeno io a vivere così.. Ma come fanno delle persone a sopportare tutto questo?”, e quindi lo domandò ai suoi compagni di viaggio. “Che vuole che le dica? Abbiamo protestato, abbiamo manifestato, scritto lettere, bloccato i treni, tentato di tutto, ma la situazione non è cambiata. I politici non ci ascoltano, pensano solamente ai loro interessi. Noi cosa potevamo fare di più? Una rivolta popolare? Abbiamo delle famiglie a cui pensare, dei figli da crescere, non possiamo permetterci di perdere il lavoro, altrimenti finiremo in mezzo alla strada!” rispose uno dei pendolari mentre gli altri annuivano. Il gufo allora preferì non parlare più. Aveva capito anche la loro situazione, che sebbene fosse migliore di quella dei barboni, era precaria e appesa un sottile filo che si sarebbe potuto spezzare al prossimo licenziamento di massa.
Scese dal treno ad una stazione situata in periferia. Uscito in superficie vide un gruppo di ragazzi intenti a picchiare un loro coetaneo. Il gufo si avvicinò urlando “Basta! Smetterla! Lasciatelo stare, o chiamo la polizia!”. Gli aggressori si spaventarono e fuggirono. Il gufo aiutò il ragazzo a rialzarsi e gli chiese cosa avesse fatto per meritare un trattamento così barbaro. Il giovane rispose “Signore.. vede.. io sono omosessuale, e in un posto come questo non è una cosa vista di buon occhio. Devo sopportare ogni giorno battute pesanti ed insulti, oltre ad essere malmenato da loro quando gli gira male. Ma non picchiano soltanto me.. Ieri hanno aggredito una ragazza romena, e l’altro ieri un ragazzo di colore. Disprezzano chi è diverso da loro, persino gli anziani! Ed arrivano ad atti come questi molto spesso.. noi “diversi” qui non abbiamo dignità.. spero solo di potermene andare lontano un giorno..” e ringraziando il gufo per averlo aiutato se ne andò zoppicando. L’anziano politico provò molta tristezza. Pensò che sarebbe potuto capitare anche lui. Cosa avrebbe fatto in quel caso? Sarebbe morto sotto i colpi di un gruppo di teppisti? E per la prima volta capì cosa fosse la dignità e il rispetto per gli altri.
Allontanandosi dalla stazione, iniziò a camminare tra i “casermoni” popolari. Era un paesaggio triste: enormi case si susseguivano tutte uguali per un paio di chilometri. La natura sembrava aver abbandonato quel posto: solo di tanto in tanto spuntava un albero, per giunta trasandato, e sprazzi d’erba selvatica che spuntavano tra le mattonelle sconnesse dei vialetti. I palazzi erano alti e grigi, di forma rettangolare. Camminò a lungo tra le abitazioni. Sentiva un senso di ansia e tristezza crescergli dentro: come si poteva vivere in un posto del genere che al solo passarci toglie la gioia di vivere?
Nel suo peregrinare incontrò una signora anziana con una bambina. Si avvicinò e chiese alla donna come poteva vivere in un posto del genere. “Eh, che devo fare? La mia pensione è al minimo, non posso permettermi una casa in un posto più centrale. Anche mia figlia vive qui vicino; lavora molto perché è sola, non può permettersi una baby sitter e allora tengo io la bambina durante il giorno. Mi fa piacere. Certo il posto qui è brutto, ma le racconto favole per far sì che la sua mente evada da questo luogo e possa distrarsi con la fantasia” così disse la donna, e, guardando il sorriso della bambina abbracciata al ventre della nonna, al gufo scese una lacrima.

Era notte. Il gufo non riusciva a dormire. Attendeva, come la notte precedente, la nera signora, che giunse puntuale alla stessa ora del giorno prima, preceduta dal gelido vento.
“Allora, mortale, dimmi: hai trovato una buona ragione affinché la tua vita continui ancora?” chiese la morte.
“A dir la verità sì, oscura presenza. Ho capito. Dopo tanti anni di vita ho finalmente capito il mondo. Ho compreso cos’è la sofferenza umana, cosa significa vivere di stenti, senza una speranza per il futuro. Ho toccato con mano le difficoltà delle vite altrui, ho capito che con l’oro ed il potere non si compra la felicità, ma che essa si può trovare anche solo nel sorriso di un bambino. Da oggi per tutti i giorni che mi restano, anche se saranno pochi, mi batterò tra i miei colleghi affinché comprendano anche loro il modo giusto e corretto per governare, e dove e come il nostro intervento possa rendere lieta la vita di altri esseri umani.”
In quel momento il gufo fu investito da una forte luce bianca e, non appena riuscì ad aprire gli occhi, si trovò davanti una figura angelica, che nulla aveva a che vedere con la ripugnante ed oscura signora di prima. La splendida creatura parlò: “Io sono l’altro aspetto della morte: la rinascita, il bianco, quello che scaturisce da ciò che prima era avvizzito. Tu, Bruno, sei rinato. Il tuo lato meschino è defunto, sei una persona nuova. Sono lieta che tu abbia finalmente compreso cosa significhi essere umani. È per questo che ti ho concesso ancora del tempo, affinché tu capissi la sofferenza altrui, e tu possa anche solo con un piccolo gesto, rendere migliore la vita delle persone che governi. Non ti resta molto tempo, sei già vecchio, ma quel poco che ti rimane, utilizzalo al meglio. Buona fortuna!”. Così dicendo la morte scomparve in un lampo di luce bianca, lasciando solo il gufo.
Da quel giorno egli mise a disposizione i suoi averi per gli altri, e combatté una dura battaglia nel governo affinché questo avesse a maggior cura la vita umana più che gli interessi economici. E come era rinato morì in un giorno dell’inverno successivo. Ed ora sulla sua tomba crescono rigogliosi degli incantevoli fiori.

FeFe