Come già annunciato dalla nostra ElfoMiope, dueparole andrà in "vacanza" per l'opprimente sessione d'esami che tutti e tre stiamo vivendo..
Nel frattempo verranno pubblicati i racconti restanti delle precedenti settimane ed altri racconti degli autori, non inerenti alla sezione dueparole.
Buona lettura e buono studio! D:
:)
FeFe
martedì 19 giugno 2012
domenica 17 giugno 2012
Un Processo - ElfoMiope
Bonsoir! Come accennato in precedenza, mi trovo sotto molteplici
esami. Ciò ha fatto sì che ciò che restava di minimamente coerente nel
mio cervello andasse perduto per sempre (o almeno fino a inizio Luglio),
e questa storia ne è il tragico risultato.
Sarete contenti adesso, professori. Sarete contenti, di aver creato un'idiota :)
ps:
è con rammarico dolorequem che vi annuncio che io ed i miei due
altrettantosottoesami compagni abbiamo deciso di sospendere il dueparole
fino a quando non saremo certi di esserci tratti in salvo da quella
terribile nave naufragante che è l'inizio dell'Estate per gli studenti.
UN PROCESSO
Apologia del Tempo
“L’assassino è il Tempo, Signor
Giudice”, esordì l’accusa, nelle spoglie dell’avvocato Pagliuzzi. Sotto gli
occhi del giudice, della giuria e della famiglia del morto, l’allampanato
Pagliuzzi camminò con passo teatrale attraverso l’aula, sino a trovarsi di
fronte al Tempo; sul banco di quest’ultimo l’avvocato ebbe cura di sbattere con
violenza un pesante fascicolo di fogli, causando un gran frastuono. Il Tempo
restò impassibile.
“Tutte le
prove testimoniano a suo sfavore, tutte le strade portano a lui”, continuò
Pagliuzzi, un po’ deluso dall’assenza di reazioni da parte dell’accusato.
“Testimoni oculari, tra i quali ho scelto di includere non solo alcuni
familiari ma anche l’infermiere e la farmacista che vedevano la nostra vittima
tutti i giorni, sono qui pronti a giurare di aver assistito in prima
persona al lento e sadico omicidio
perpetrato dal Tempo qui presente ai danni di Giacomo Vegliardi”
“Che parli
un testimone, allora”, fece il giudice, sbrigativo. Aveva il raffreddore e
nemmeno un processo tanto inusuale poteva risvegliare il suo entusiasmo, al
momento. Incurante dell’opinione dei presenti, sciolse nell’acqua due aspirine
e le trangugiò.
Intanto alla
sua esortazione una donna vestita di grigio si era alzata dal banco dei
testimoni: era la farmacista, gestiva il negozio dove il morto (quand’era
ancora vivo, s’intende) per quarant’anni si era recato quasi ogni giorno, fino
all’ultimo, a comprare quantità industriali di medicine. La donna portava i
capelli legati stretti, ed un attento osservatore avrebbe potuto capire che era
agitata notando le gocce di sudore che le si formavano sulla nuca.
“Io sono
Amanda Cenere, Vostro Onore”, esordì la donna con voce vagamente tremolante. “Ed
il signor Vegliardi lo conoscevo bene, per così dire, o almeno lo vedevo praticamente
tutti i giorni. Il signore infatti è sempre venuto a comprare le medicine da
noi, prima ancora che io iniziassi a lavorare alla farmacia. Sempre vissuto
nello stesso posto, sempre gentile, il signor Vegliardi. Pensi che una volta-“,
La signora Cenere s’interruppe, bloccata da uno sguardo eloquente dell’avvocato
Pagliuzzi. Svelta, cambiò di nuovo argomento: “Insomma, Vostro Onore, tutto è
andato sempre bene per il signor Vegliardi, all’apparenza, ma io lo vedevo, che
c’era qualcosa che non andava. I capelli, ad esempio: i suoi capelli diventavano di anno in anno
più bianchi, come a testimoniare un grande stress emotivo, o un terribile
shock. E il viso, Vostro Onore, il viso! Ogni giorno vi si tracciavano nuovi
profondi solchi, che rendevano le sue espressioni sempre più grottesche. E poi,
negli ultimi tempi, il signore camminava chino, zoppicante, con grande fatica:
pareva che qualcuno lo avesse riempito di bastonate, senza pietà. Infine, un
giorno non è più tornato.
Ma io ho capito
subito cosa fosse successo e in realtà già l’avevo capito prima che accadesse:
il signor Vegliardi è stato ucciso, anzi no, seviziato per anni ed anni,
portato lentamente verso una morte snaturata. E non è il primo che vedo finire
così, oh no, Vostro Onore, non è il primo! L’ho sempre sospettato, ma solo ora
ho il coraggio di dirlo: è il Tempo, l’assassino! È stato lui a tormentare e
terrorizzare il povero signor Vegliardi, fino a condurlo alla morte!”. La
signora Cenere era parsa sempre più accaldata durante il suo lungo intervento,
tanto che la sua incertezza iniziale era svanita senza lasciare traccia. La
donna si voltò verso l’accusato dall’altra parte dell’aula, con un fare
teatrale che probabilmente aveva attentamente studiato guardando chissà quale
telefilm americano.
“Grazie,
signora Cenere”, parlò allora Pagliuzzi, mellifluo, poggiando una mano sulla
spalla della donna con fare paterno. “Come vedete, Signor Giudice, l’accusa
della nostra rispettabile testimone è ben fondata e logica. Siamo tutti consci,
infatti, dei terribili poteri che il Tempo ha a disposizione, e di come spesso
si risolva ad usarli così, con tale barbarie, sui normali cittadini. Ma ora,
Vostro Onore, se permette io chiamerei a parlare un altro testimone, il signor-
“.
“Aspetti un
attimo, Pagliuzzi”, lo interruppe però il giudice, volgendosi verso il banco
dove Tempo stava impassibile. “Voglio ascoltare anche l’altra parte in causa.
Tempo, ha portato con lei un legale, a strutturare la difesa?”
“No, Signor
Giudice”, fu la prima frase pronunciata da Tempo in tutto il processo, “Parlerò
io stesso in mia difesa”.
Tutti erano
tesi verso l’accusato, ansiosi di veder cadere infine quello che consideravano
il loro oppressore.
“Non mi
trovo qui in aula perché sono stato accusato dal signor Pagliuzzi, oggi, né per
difendermi da lui. Il buon avvocato segue probabilmente un interesse personale
nel convocarmi qui cercando di attuare la mia rovina. Infatti egli teme me più
di ogni altra cosa, è terrorizzato dal pensiero di finire come il signor
Vegliardi, ogni nuovo capello bianco che si scopre durante le sue lunghe
ispezioni allo specchio è per lui fonte di infinito tormento…”
“Irrilevante,
Vostro Onore!”, strepitò Pagliuzzi, “Bugie, invenzioni!”
Il giudice
riprese il Tempo, intimandogli di attenersi al processo. Questi acconsentì di
buon grado.
“Ad ogni
modo, Signor Giudice ed esseri umani qui riuniti, io sono tra voi oggi per
aprirvi gli occhi. Quando avrò finito di parlare vi sarà chiaro che non io,
bensì i vostri compagni terreni sono la causa della vostra fine”. Qui, un
mormorio si diffuse nella sala, mentre tutti borbottavano senza capire le
parole arcane dell’accusato.
“Sono addolorato
per il Signor Vegliardi e per tutti coloro che si trovano a perdere la vita,
spesso dopo prolungate sofferenze. Voi mi temete, perché ritenete che il mio
scorrere vi porti man mano alla morte. Quasi come se io, da solo, potessi
consumarvi lentamente, come se ogni minima frazione di me, ogni mio secondo,
mano a mano rompesse irreparabilmente piccoli pezzi del vostro corpo. Come se
io, il Tempo, procedendo rubassi tempo a voi. Ma come può il Tempo rubare il
tempo? Non sono io che faccio avvizzire la vostra pelle, ‘arrugginire’ i vostri
organi. Siete voi stessi, l’utilizzo che voi fate di voi stessi, a far sì che
vi decomponiate lentamente. Io da solo non posso nuocervi affatto, ma l’aria
che respirate, il cibo che mangiate…tutto fa sì che il vostro corpo imperfetto
si stanchi. Come a dire che gli esseri viventi non hanno un limite di tempo, ma
di utilizzo.
Io, il
Tempo, sono solo un contenitore, l’arena all’interno della quale a voi e ad
ogni altro oggetto o essere vivente è data piena libertà. All’interno del Tempo si svolgono tutte le
vicende: microscopiche, macroscopiche e nel vostro caso umane, in un infinito
compenetrarsi. È l’attrito tra voi ed ogni altra componente del mondo che vi
scalfisce, che vi porta via i pezzi.
Io e lo
Spazio, vostri benefattori in quanto condizioni imprescindibili per la vostra
esistenza, ci limitiamo a guardare.
L’invecchiare,
dunque, a cui pone fine la vostra morte naturale, è frutto semplicemente del
vostro continuo interagire con il resto del mondo, che si svolge sì all’interno
di me, ma che da me non dipende in alcun modo. Così è stato e così sempre sarà;
e se permettete che io qui vi lasci qualcosa su cui riflettere, non c’è niente
di orribile nella Morte”.
Così terminò
il Tempo il suo lungo discorso, a cui seguì un silenzio gelido. Nessuno dei
presenti aveva l’aria di aver apprezzato particolarmente le parole
dell’accusato. Pagliuzzi, anzi, colse al volo l’occasione per iniziare
nuovamente a protestare, il suo tipico tono mellifluo gettato alle ortiche, e
ben presto a lui si unì l’aula intera. Nel trambusto che seguì, tra gente che
si alzava e agitava i pugni, il Tempo esasperato decise di girare i tacchi (o
qualunque cosa il Tempo indossi al posto dei tacchi) ed andarsene. Sospirando,
stropicciandosi le tempie con una mano, la sua figura impallidì progressivamente
sino a sparire, e tanta era l’agitazione dei presenti che nessuno se ne
accorse.
Solo il
giudice, confuso, dovette ripensare a quel momento in particolare, perché gli
parve distintamente di udire la voce gentile del Tempo sussurrargli in un
orecchio: “La Morte non sarà male, amico mio, ma lascia che ti dia un
consiglio: vacci piano con le aspirine”.
Marghe/ElfoMiope
mercoledì 13 giugno 2012
dueparole5
Gli esami straziano i nostri animi indeboliti, ed i post sono sempre più radi e sparpagliati. È dunque con fierezza e ben tre giorni di ritardo che vi comunico le due wowwose parole della settimana, gentilmente forniteci dalla Cosa:
Aspirina - Un farmaco antiinfiammatorio non-steroideo della famiglia dei salicilati.
Tempo - Il tempo è la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi. Essa induce la distinzione tra passato, presente e futuro. La complessità del concetto è da sempre oggetto di studi e riflessioni filosofiche e scientifiche.
Aspirina - Un farmaco antiinfiammatorio non-steroideo della famiglia dei salicilati.
Tempo - Il tempo è la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi. Essa induce la distinzione tra passato, presente e futuro. La complessità del concetto è da sempre oggetto di studi e riflessioni filosofiche e scientifiche.
Marghe
venerdì 8 giugno 2012
L'artista - ElfoMiope
Bene. è meglio che io non commenti il significato di questa storia, che penso si possa intuire comunque :)
L'artista
C’era una volta un grande Re. Questo
Re, non essendo mai stato costretto ad entrare in guerra contro un qualche altro sovrano dei paesi vicini, si trovava costantemente a disporre di molto tempo libero. Per colmare
dunque le sue lunghe giornate, aveva invitato ad abitare nel proprio castello
decine e decine di artisti: v’erano, in quelle stanze di pietra, musici
straordinari dalle voci simili al cinguettare degli uccelli, giullari i cui
giochi facevano tremare l’intero castello per le risate degli spettatori, maghi
capaci di stupire il più scettico degli alchimisti con migliaia di trucchi
incredibili.
Eppure, il favorito del Re
restava Aloisio.
Aloisio era un pittore, ma uno di
straordinaria bravura. Da tutto il regno erano venuti a sfidarlo, per guadagnarsi un posto alla
corte del Re; eppure, nessuno era nemmeno riuscito ad avvicinarsi al suo genio.
I dipinti di Aloisio infatti sembravano magici: raffiguravano scenari meravigliosi e terre mai viste, tanto che in essi pareva potersi riflettere tutto il mondo che certamente si trovava racchiuso nella testa del pittore. Egli rendeva possibile l’impossibile: con una pennellata, nascevano le montagne. Un colpo di spatola, e uno zigomo si stagliava fiero su di un volto. E Aloisio, sebbene non ne facesse parola con il Re (infatti non credeva che qualcun altro, che non fosse lui stesso, potesse essere in grado di comprendere appieno la sua interiorità), assegnava ad ogni singolo tratto un significato. Nulla, per lui, era casuale. Sicuramente era questo che rendeva i suoi dipinti così straordinari: v’erano in essi infiniti significati nascosti, complessi ragionamenti che si traducevano, con un processo totalmente spontaneo, in immagini fantastiche. Impossibile non intuirlo, nonostante il pittore non fosse prodigo di spiegazioni.
I dipinti di Aloisio infatti sembravano magici: raffiguravano scenari meravigliosi e terre mai viste, tanto che in essi pareva potersi riflettere tutto il mondo che certamente si trovava racchiuso nella testa del pittore. Egli rendeva possibile l’impossibile: con una pennellata, nascevano le montagne. Un colpo di spatola, e uno zigomo si stagliava fiero su di un volto. E Aloisio, sebbene non ne facesse parola con il Re (infatti non credeva che qualcun altro, che non fosse lui stesso, potesse essere in grado di comprendere appieno la sua interiorità), assegnava ad ogni singolo tratto un significato. Nulla, per lui, era casuale. Sicuramente era questo che rendeva i suoi dipinti così straordinari: v’erano in essi infiniti significati nascosti, complessi ragionamenti che si traducevano, con un processo totalmente spontaneo, in immagini fantastiche. Impossibile non intuirlo, nonostante il pittore non fosse prodigo di spiegazioni.
In poche parole, l’arte di Aloisio faceva
faville a corte ed il Re lo stimava e lo considerava un grande amico.
Fino al giorno in cui l’artista fece il suo ingresso nel
castello.
L’artista era un uomo di mezz’età, benestante. Fin dalla prima
volta in cui mise piede sul tappeto rosso del Re, gli occhi di tutti erano per
lui. Emanava, dal suo sguardo, una sorta di aura di intelligenza, di sicurezza, con una dose di prepotenza che lasciò tutti a bocca aperta. Ad una guardia all’ingresso
si spalancò addirittura l’elmo, con indubbio effetto cinematografico, rivelando
uno sguardo imbambolato fisso su quello strano figuro.
L’artista si portò a grandi passi
verso la lunga tavola imbandita dove il Re sedeva con Aloisio, immerso in una
animata ma amichevole discussione. Quando fu giunto di fronte al sovrano, si
esibì in un impercettibile inchino e con voce alta e sicura pronunciò queste parole:
“Vostra Maestà, mi presento: io
sono Ambrogio Martino Secondo, e sono stato condotto fino a voi dal desiderio di diventare l'artista di corte”.
Il Re smise di parlare e volse lo
sguardo sul nuovo arrivato.
“Ma io ho già un artista di
corte, mio buon Ambrogio Paolino: è seduto ora al mio fianco. Dubito fortemente che tu possa
anche solo avvicinarti, con la tua arte, alla sua magnificenza”.
Allora Aloisio non poté esimersi
dall’entrare nella conversazione:
“Non siate precipitoso, mio Re”,
esordì con modestia, “di artisti migliori di me sicuramente ne son nati e
ancora ne nasceranno. Perché non mostrate al nostro Signore ciò di cui siete
capace, Messer Ambrogio? Di sicuro avrete portato con voi uno o più esemplari del
vostro lavoro”.
Allora l’artista, con grande stupore di tutti, avanzò di
qualche passo e sputò nel piatto del Re. Poi, sotto
gli sguardi attoniti della corte intera, raccolse il piatto e lo mostrò,
alzandolo alto sopra la testa.
“Questa è la mia arte, mio Re!”,
gridò; e come furioso scagliò il piatto in terra. Mille pezzi di terracotta volarono in
tutte le direzioni.
Tutti i presenti fissavano l’artista
ed i cocci, senza parole. Aloisio solo rideva esilarato, rompendo l’esterrefatto silenzio.
Infine, dopo quelle che parvero ore nell'atmosfera paralizzata della sala, il Re si alzò e parlò,
balbettando:
“Ma… ma questo è oltraggioso, sì,
oltraggioso… io, io ti chiedo perché l’hai fatto, e e ti ordino di rispondermi!”.
Mai prima si era udito Re parlare con tono più incerto e minor convinzione.
“L’ho fatto, mio Re, per
meravigliarvi", fu la risposta di Ambrogio, il quale esibiva ora un enigmatico sorrisetto, "Non è forse questo che fa il vostro artista di corte tutti i
giorni, Sire, meravigliarvi? Io posso farlo
anche ogni minuto, se me lo concederete. Vi garantisco che non conoscerete più la noia, con me”.
Aloisio smise finalmente di
ridere: “Ma questo è inaudito, mio Re! Meravigliarvi?
Ogni cosa può meravigliarvi, se glielo concedete, poichè ogni cosa è meravigliosa! Ogni suono, ogni odore… ma io
cerco ogni giorno di farvi sognare con me, Sire, di portarvi con me nei miei
infiniti viaggi della mente, mostrandovi cose che non si trovano da alcun'altra parte. Io voglio comprendere e imparare con voi, mio Re,
non compiere gesti criptici volti solo ad un vile meravigliare, che invero meravigliare
non è!”
Eppure il Re sembrava come sotto l’effetto
di un incantesimo. “Mio buon Aloisio, amico mio”, iniziò, pensieroso, “non
essere precipitoso, suvvia. Non vedi quanto sia nuovo ciò che il buon Ambrogio,
qui, ha creato? Non provi anche tu un grande sconvolgimento? Nessuno, nessuno,
si era mai comportato così in mia presenza. Eppure io non percepisco insulto
alcuno! Vorrei, vorrei vedere altre cose di questo genere, comprenderne l’origine.”
Qui sembrò riflettere per un secondo. “Ma sì, per Dio, c’è posto per più di un
artista qui a corte! Ambrogio, fatemi l’onore di rimanere con noi, vi prego,
meravigliatemi ancora.”
Aloisio era sconvolto, Ambrogio
Martino raggiante; e tutta la corte annuiva con convinzione alle parole del Re,
tutti volevano che l’artista li meravigliasse ancora e ancora.
Quello fu il giorno in cui iniziò
il tramonto di Aloisio. Nessuno, adesso, sembrava più voler vedere le sue opere, passare del tempo a
scoprire tutti i particolari e le minuzie dietro alle quali si celavano tante
idee e tanti segreti. Il grande salone di pietra era diventato il regno di
Ambrogio, ora, il regno delle sue folli trovate. Non passava giorno che l’artista
non si rotolasse per terra, o prendesse una dama a capocciate, o leccasse un
orecchio a qualcuno. Faceva tutto parte della sua opera d’arte, diceva.
E le opere di Aloisio, sole, rattrappivano.
Marghe/ElfoMiope
L'arte della guerra
Una strana storia sulle parole arte e meraviglia.
La cella puzzava di umido
e muffa. Un debole filo di luce passava attraverso una grata sulla parete,
illuminando l'ambiente. L'uomo, rannicchiato in un angolo, osservava la lenta danza
dei corpuscoli di polvere che svolazzavano sotto la luce, senza tuttavia
vederla davvero. Era un tipo massiccio dalla folta barba incolta, segno del
fatto che si trovava in quel luogo da un tempo sufficientemente lungo, ma non
eccessivo visto che sembrava ancora in forze. I vestiti erano stracciati e sul
corpo portava segni di violenze, lividi e tagli più o meno recenti, dei quali
però non sembrava nemmeno accorgersi come se in vita sua avesse subito di
peggio. Ad ogni modo, il prigioniero nella cella in quel momento non se ne
sarebbe comunque curato, poichè per la prima volta nel corso della sua lunga
esistenza stava riflettendo.
Ascoltando
le ritmiche pulsazioni del suo cuore, osservava con un senso di crescente
meraviglia i pensieri prendere forma nella sua mente, liberi, ma soprattutto
suoi. Fuori da quella cella e in un'altra vita, era stato un soldato e i
soldati hanno l'ordine di non pensare, ma solo di obbedire.
Era
così assorto da non rendersi conto del forte formicolio che partendo dai piedi
si stava espandendo in tutto il corpo, un atto di ribellione delle sue membra
per essere state costrette tanto a lungo in una scomoda posizione. Non vedeva
più nemmeno i topi che squittendo giravano per la cella e che in un altro
momento avrebbe cercato di catturare. Ciò che invece scorreva dietro ai suoi
occhi erano le immagini della sua vita passata.
Lui
era stato il migliore, il più grande spadaccino che il mondo avesse mai visto.
Non solo grazie alla forza che madre natura gli aveva dato, ma anche grazie al
duro addestramento che si era imposto: la sua parola d'ordine era stata
disciplina. Altrimenti, come avrebbe potuto arrivare fin dove era arrivato? Come
avrebbe potuto un semplice ragazzino di campagna scalare i vertici
dell'esercito e diventare il generale supremo? Per un istante si rivide a
sedici anni, con un sacco di tela in spalla e quattro stracci addosso, mentre
varcava sotto gli occhi vigili delle guardie il grande cancello di Tharia, la
capitale dell'Impero. Risentì le voci della folla accanto a lui e gli odori della
città, un misto di tanfo e profumi che lo aveva stordito. Ricordò come si era diretto subito alla
caserma e si era arruolato, guardando negli occhi gli ufficiali sfidandoli a
fermarlo. Nessuno l'aveva fatto, perchè a quel tempo avevano bisogno di
chiunque fosse disposto ad entrare nell'esercito. La guerra aveva già falciato
innumerevoli vite e c'era sempre bisogno di carne fresca da mandare al macello.
Per qualche mese l'avevano allenato e lui aveva mostrato a tutti le sue
abilità: non c'era una sola arma che non riuscisse ad usare al meglio, non
c'era tecnica che non apprendesse e lentamente iniziò a scoprire di essere più
abile di molti degli ufficiali. Non seppe mai se fu per invidia o per necessità
che lo inviarono in battagia prima di tutte le altre reclute, sta di fatto che
pochi mesi dopo il suo arrivo in città si trovò armato di tutto punto schierato
in mezzo alla fanteria a caricare l'esercito nemico. E fu quello il momento che
cambiò la sua vita.
Nel
mezzo delle grida, fra il furore e la paura che facevano muovere l'esercito
schierato come un sol uomo, un istante prima che i due schieramenti cozzassero
con un fragore assordante, lo vide. Vide la sua prima vittima, un uomo più
grande di lui che impugnava una lunga lancia e che correva dritto incontro. Risentì la scarica elettrica che gli era corsa lungo la schiena, ma ancor
di più rivide gli occhi del suo avversario, colmi di rabbia e di dolore. Una rabbia
che tuttavia non sembrava diretta verso il nemico, bensì verso sè stesso, come
se si odiasse per il fatto di trovarsi lì, impugnando quella maledettissima
lancia, costretto a uccidere. L'ira dell'uomo sapeva di terra bruciata, di una
casa perduta, di racconti davanti al camino: era la furia di colui che che cerca
la morte.
Con
un movimento fluido, il ragazzo piantò la lancia nel petto dell'uomo e senza
mai smettere di guardarlo negli occhi, gli sembrò che l'avesse sollevato da un
grande peso. Durante quello scontro uccise molti altri uomini, sempre cercando
di scrutare nei recessi del loro animo. E uccise ognuno di loro nel modo in cui
essi sembravano chiedergli di farlo perchè se proprio dovevano morire, era giusto che se ne andassero a modo loro.
Combattè
innumerevoli battaglie dopo di quella e il suo modo di uccidere divenne
un'arte. Che si mostrasse pietoso o crudele le sue vittime cadevano quasi con
un sorriso e fu così che da soldato divenne ufficiale, da ufficiale sergente
fino a ritrovarsi generale supremo dell'esercito imperiale.
Per
lunghi anni servì fedelmente l'imperatore e così continuò a fare quando salì al
trono suo figlio. Non era importante domandarsi che persona fosse e nemmeno se
gli ordini che gli impartiva fossero giusti o no. Semplicemente dovevano essere
eseguiti nel migliore dei modi. E se i provvedimenti del sovrano causavano
malcontento nella popolazione, lui doveva essere il primo a difendere il potere
imperiale soffocando le ribellioni che iniziavano a nascere in tutto l'impero. Ma
benchè il suo talento e le sue capacità fossero grandi, nulla potè contro il
tradimento di alcuni dei suoi uomini che fecero entrare in città l'esercito dei
ribelli, aprendo loro le porte.
Lui
era riuscito a salvare l'imperatore, ma era stato catturato dai ribelli. Lo
avevano gettato in quella cella e torturato nel tentativo di estorcergli ciò
che sapeva. Non aveva parlato e di tanto in tanto aveva visto al fianco dei
suoi torturatori qualcuno di coloro che lo avevano tradito che tuttavia non
aveva avuto il coraggio di guardarlo negli occhi.
E l'indomani
sarebbero venuti a prenderlo per condurlo al patibolo.
Un
sorriso stanco apparve sul volto del prigioniero. La cosa più strana era che
nonostante tutto ciò che aveva fatto e che gli era successo, non riusciva a
provare nulla: nè rabbia, nè dolore, nè desiderio di vendetta. E nell'arco di
tutta la sua vita, non aveva mai sentito nulla. Solo nel momento in cui
uccideva provava qualcosa: si sentiva utile. Aveva l'impressione di compiere
qualcosa di necessario, non per sè stesso, ma per gli altri. Coloro che aveva
passato a fil di spada, gli erano sempre sembrati desiderosi di smettere di vivere
e ciò che aveva fatto era stato accontentarli. La sua in effetti, non era stata
un'arte di uccidere, bensì un'arte della misericordia secondo il suo punto di
vista.
Ma
non aveva nemmeno provato a spiegarlo ai suoi carcerieri, non avrebbero capito.
Nemmeno lui stesso si capiva completamente, del resto. Non rimaneva che una
sola cosa da fare.
Ignorando
le proteste dei suoi muscoli anchilosati, il prigioniero si alzò in piedi e
raggiunse la porta della cella.
"Guardia!"
esclamò con la voce arrochita dalla sete e dal poco uso.
Con
una mano battè sulla porta e chiamò nuovamente.
"Cosa
vuoi, bastardo?" rispose una voce dall'esterno. Nonostante le dure parole,
il tono della giovane voce era titubante, come se colui che aveva parlato fosse
in preda ad una lotta interiore.
Il
prigioniero riconobbe la persona che aveva parlato e tirò un sospiro di sollievo. Era uno di quelli
che lo avevano tradito: forse avrebbe accettato di fare ciò che gli avrebbe
chiesto, se avesse fatto leva sul suo senso di colpa.
"Guardia,
ho un ultimo desiderio." Rispose con voce affannosa e stanca
"L'ultimo desiderio di un condannato."
Ci
fu un attimo di silenzio, in cui avvertì l'indecisione della guardia che infine
rispose:
"Parla.
Se possibile sarai accontentato."
Il
prigioniero si appoggiò alla porta cercando di non scivolare a terra.
"Vorrei..."
disse con voce fioca "Vorrei che mi fosse concesso di radermi: domani ci
sarà la mia esecuzione e preferirei morire da soldato. E nessun soldato, in
nessun momento della sua vita ha la barba lunga."
Incrociò
le dita e attese la risposta della guardia.
"Mi
chiedi di darti una lama con la quale potresti ucciderci quando verremo a
prenderti domani, mi credi forse così sciocco?"
"No,
nient'affatto. So bene che non sei uno sciocco soldato Smithwick." Il prigioniero
si godette l'effetto che le sue parole avevano avuto sulla guardia. Sapeva che
il ragazzo era trasalito, non si sarebbe mai aspettato di essere riconosciuto. "Ti
do la mia parola d'onore che domani, quando verrete a prendermi, non vi verrà
torto un capello. Sai che non ho mai tradito la parola data. Ti chiedo solo un
rasoio e uno specchio, ti prego."
Pronunciò
l'ultima parte della frase con tale intensità da stupire perfino sè stesso.
Trascorsero
lunghi attimi in cui non ci fu risposta, poi il giovane rispose in un sussuro:
"Non
volevo che succedesse questo, generale. Non volevo tradirvi! Posso portarvi
fuori da qui, ma vi prego perdonatemi!"
Il giovane sembrava sull'orlo delle lacrime,
ma il prigioniero lo azzittì.
"Se
vuoi davvero aiutarmi e farti perdonare, dammi ciò che ti ho chiesto. Ti
prometto che andrà tutto bene."
"Agli
ordini, generale!" disse la giovane guardia con voce rotta e si allontanò
lungo il corridoio.
Ascoltando
il suono dei passi che si affievoliva, il generale si lasciò cadere in terra,
sollevato. Era fatta, ci era riuscito. Ora non doveva fare altro che aspettare.
Dopo
quello che al prigioniero sembrò un tempo infinito, il ragazzo tornò e facendo
scorrere lo sportellino che usavano per passargli il cibo, fece scivolare nella
cella il rasoio e un malridotto frammento di specchio.
Non
appena fu certo che il giovane si fosse allontanato, prese specchio e rasoio e
si mise seduto nel punto più luminoso della cella: per quello che stava per
fare, aveva bisogno di vedere chiaramente. Tenendo in una mano il rasoio e
nell'altra lo specchio osservò il riflesso dei suoi occhi: un volto stanco e segnato gli ricambiò un pallido sorriso. Ora sapeva, non gli serviva altro. Con un sorriso
sulle labbra, e un gesto fluido del braccio, si tagliò la gola.
Per la prima ed ultima volta nella sua vita, aveva agito di testa sua. Un fiotto di sangue uscì dalle sue labbra, congelando in eterno il suo sorriso.
Cami/Bradipo
giovedì 7 giugno 2012
Bardi
Dame e Cavalieri, bambini di ogni età.
Non narrerò una storia, ma incredibile realtà.
La vostra Margherita, scrittrice occasionale
è stata appena inclusa in un ebook niente male;
Mettendosi in combutta con altri bravi bardi
Cantato ha lei di cani, sia di razza che bastardi.
A chi di barboncini o di bulldog vuole sapere
Consiglio questo link, tosto andatelo a vedere!
Non narrerò una storia, ma incredibile realtà.
La vostra Margherita, scrittrice occasionale
è stata appena inclusa in un ebook niente male;
Mettendosi in combutta con altri bravi bardi
Cantato ha lei di cani, sia di razza che bastardi.
A chi di barboncini o di bulldog vuole sapere
Consiglio questo link, tosto andatelo a vedere!
martedì 5 giugno 2012
dueparole4
Le prossime parole, scelte da mia "maaadreeeeeeee", sono:
-Arte In senso lato, capacità di agire e di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche, e quindi anche l’insieme delle regole e dei procedimenti per svolgere un’attività umana in vista di determinati risultati
-Meraviglia Sentimento vivo e improvviso di ammirazione, di sorpresa, che si prova nel vedere, udire, conoscere cosa che sia o appaia nuova, straordinaria, strana o comunque inaspettata
Buona scrittura!
FeFe
-Arte In senso lato, capacità di agire e di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche, e quindi anche l’insieme delle regole e dei procedimenti per svolgere un’attività umana in vista di determinati risultati
-Meraviglia Sentimento vivo e improvviso di ammirazione, di sorpresa, che si prova nel vedere, udire, conoscere cosa che sia o appaia nuova, straordinaria, strana o comunque inaspettata
Buona scrittura!
FeFe
Il campeggio - dueparole3 FeFe
Ecco qui in ritardo la mia storia. Sarà per lo stress pre-esami (ne ho uno tra qualche ora), ma non mi andava di scrivere una storia "carina e coccolosa", così mi sono buttato su qualcosa di più macabro.. spero piaccia ugualmente! :)
Il campeggio
Il campeggio
Giulio e Giulia partirono per un campeggio, durante il fine
settimana. Arrivarono il venerdì verso sera nel campo. Si sorpresero non
trovando altri villeggianti oltre a loro, e, svuotando la macchina da zaini e
tenda, si diressero verso la casupola del custode. Anche lì sembrava non
esserci nessuno. Decisero allora di piantare lo stesso la tenda, e di cercare i
guardiani il giorno seguente.
Una volta sistemati, misero a scaldare la cena portata da
casa su di un fornelletto a gas, e nel frattempo Giulio, che era un musicista
molto apprezzato in città, tirò fuori la sua chitarra ed iniziò a suonare e
cantare per passare il tempo.
Intorno a loro c’era solo oscurità. Non si vedeva nulla e
nessuno. Il suono delle loro voci e del loro strumento rimbombava per tutta la
riserva. Ad un tratto sentirono un rumore alle loro spalle, ed una voce
maschile li fece sussultare. “Vi sembra normale fare tutto questo baccano? Mi
avete svegliato! E poi chi siete e cosa ci fate nel mio campeggio?” sbraitò un
uomo sulla cinquantina, dall’aspetto trasandato. Dalle sue parole intuirono che
doveva trattarsi del guardiano. “Ci scusi.. –iniziò Giulio- ma arrivati qui
abbiamo bussato alla porta della sua abitazione, ma non ci ha risposto nessuno
ed abbiamo pensato di sistemarci e contattarla domani..”. “Che maleducati!
Stavo dormendo, è per questo che non vi ho sentito! Avreste dovuto aspettare..”
“Non essere così scorbutico come al tuo solito!” lo interruppe una signora che
si fece avanti dall’oscurità “perdonatelo -continuò la donna in tono gentile- è
molto che non viene nessuno a campeggiare qui, e pensavamo fosse qualche
malintenzionato.. naturalmente siete i benvenuti! Se non avete già mangiato,
lasciate che vi offra qualcosa, per farmi perdonare del comportamento di mio
marito. Prepariamo delle ottime salsicce qui, dovete assolutamente
assaggiarle!”.
Giulio e Giulia, che nonostante il pasto erano ancora
affamati, accettarono l’invito della donna, e, dopo essersi scusati nuovamente
ed essersi presentati, entrarono nella casupola.
Sembrava disabitata, era in uno stato di abbandono, come se
nessuno ci avesse vissuto per anni, e c’erano solo sporadiche tracce della
presenza umana, come un piccolo fornello ed un frigo degli anni cinquanta che
rinfrescava il cibo a mala pena. Da lì la donna tirò fuori un paio di salsicce,
e le mise sul fuoco. “Da dove venite?” chiese gentilmente la signora per
rompere il silenzio. “Dalla città qui vicino –rispose Giulia- ci piace andare
in campeggio, ma purtroppo siamo pieni di impegni di lavoro e così ci siamo
potuti concedere una piccola pausa per il fine settimana.” “Capisco.. sì,
effettivamente la grande città è un posto orribile.. pieno di incomprensioni e
gente pronta a giudicarti per qualsiasi cosa non rispetti i loro canoni
‘tradizionali’. Qui in campagna invece nessun essere umano si intromette negli
affari che non lo riguardano, le persone vengono per rilassarsi e poi se ne
vanno dopo poco. Ed inoltre possiamo permetterci di allevare i nostri animali
senza problemi. È con la loro carne che facciamo le salsicce, sentirete che
buone!”. Giulio e Giulia si scambiarono un’occhiata interrogativa: non avevano
infatti visto alcun animale da quando erano arrivati. Nel frattempo l’olio
iniziò a sfrigolare e dopo poco le salsicce erano pronte. La moglie del guardiano
le servì agli ospiti, mentre il marito, che era rimasto in silenzio da quando
la donna lo aveva rimproverato, fissava la coppia con uno sguardo penetrante,
come se li studiasse a fondo.
“Buone! Complimenti, non ne ho mai mangiate di questo tipo!”
disse Giulio. “Di quale animale sono?” domandò Giulia. “Eh, mia cara, è un
segreto professionale” rispose la donna strizzando l’occhio alla ragazza. Dopo
che ebbero finito il pasto e ringraziato i guardiani, la coppia si coricò nella
tenda, e passarono una notte di incubi, forse dovuti al mal di pancia causato
dalle salsicce.
La mattina dopo Giulio e Giulia si svegliarono tardi.
Avrebbero voluto fare una passeggiata nel bosco, ma si sentivano troppo
stanchi. Rimasero allora nei sacchi a pelo a parlare della sera precedente,
scambiandosi opinioni sulla strana coppia. “Molto gentili, per carità, però mi
incutevano terrore.. Hai visto come ci guardava lui?” disse Giulia. “Sì, sono
strani, ma credo sia perché il campeggio è deserto. Evidentemente gli affari
vanno male e questo li rende nervosi..” rispose Giulio, che poi aggiunse “Penso
che per ringraziarli andrò a suonargli una canzone. In fondo loro ci hanno
offerto quello che avevano preparato, ed io li ricambierò con ciò che so fare
meglio! Vado subito a vedere se sono svegli.. mi sono stufato di stare in
tenda..” “No dai sono stanca.. andiamoci dopo..” “Non ti preoccupare, tu resta
pure qui, io mi do una sistemata e vado, quando vorrai mi raggiungerai lì” e
così dicendo Giulio uscì dalla tenda con la sua chitarra in mano, dirigendosi
verso la casa.
Giulia non aveva proprio voglia di alzarsi, e si
riaddormentò. Si svegliò nuovamente che era quasi il tramonto. Giulio non era
lì. Evidentemente era rimasto tutto il giorno dai custodi. Decise di alzarsi e
raggiungerlo.
Bussò alla porta, ma nessuno le rispose. Notò allora che era
aperta e, chiedendo permesso, entrò. La stanza da pranzo era vuota, così Giulia
si diresse verso la stanza da letto, anch’essa senza nessuno. Tuttavia la
ragazza vide buttata in un angolo la chitarra di Giulio, e si accorse che
dietro allo strumento c’era uno spiraglio di luce. Avvicinandosi, scoprì che si
trattava di una porta semi nascosta. La aprì ed entrò nel locale adibito a
macelleria, dove erano tenuti tutti gli strumenti per fare le famose salsicce
assaggiate il giorno prima. Ma Giulia notò con raccapriccio che la carne con
cui venivano fatte le salsicce non era di animale, bensì di.. essere umano! Nel
locale c’erano infatti resti di corpi: braccia, piedi ed altre parti del corpo
giacevano a terra intorno alla macchina per triturare.
La ragazza ebbe un mancamento, e vomitando, svenne. Prima di
chiudere gli occhi riuscì a vedere dietro di sé il corpo di Giulio, ormai senza vita.
Capì in quel breve attimo che anche lei non avrebbe più riaperto gli occhi, e che la sua
carne sarebbe stata servita ai prossimi sventurati ospiti del campeggio.
FeFe
domenica 3 giugno 2012
Nonna Teodonia
Appena in tempo ho rispettato la scadenza! muahahahah!
“Rocca Merletta, piccolo centro
toscano, è la meta ideale per chiunque voglia godersi un piacevole
soggiorno nella salubre aria di campagna, senza perdersi il fascino
di un luogo imbevuto di storia. Il paesino, abbarbicato su di un
monte, è stato costruito nel 1253, per volontà del Conte Rasponi,
il signore di quelle terre. La leggenda vuole che al conte Rasponi
sia da attribuire la paternità della chitarra, strumento che
presentò a corte e che stregò sua maestà a tal punto da fruttare a
Rasponi il titolo nobiliare e le terre attorno a Rocca Merletta.
Infatti sulla cima del monte sorge la rocca,da cui il paese prende
il nome, una costruzione in roccia tufacea che nel corso del tempo è
stata erosa dalle intemperie che l'hanno modellata trasformandola in
una sorta di gigantesco merletto di pietra Per secoli è stata la
residenza della famiglia Rasponi, fino alla fatidica data del 23
luglio 1544, quando l'allora conte Felberto Rasponi, fu trovato morto
nella sua stanza da letto con un'espressione di gioia sul volto. Non
vi era alcun segno di effrazione, solo un forte aroma di pepe che
permeava l'aria. Il delitto non fu mai risolto e ancora oggi numerosi
turisti si fermano ad osservare la rocca e in paese è una delle
storie preferite da raccontare davanti al camino. Rocca Merletta è
inoltre famosa per le sue salsicce secche, che vi consigliamo di
assaggiare.”
Nonna
Teodonia scorse rapidamente la descrizione di Rocca Merletta scritta
sulla guida di un giovanotto, che era completamente nascosto dal
giornale che stava leggendo. Con una manovra da commando la vecchina
si era portata alle sue spalle, sottraendogli abilmente il libro che
aveva appoggiato sul tavolino e che ora osservava interdetta. Gli
occhi acuti di Nonna Teodonia avevano individuato da tempo il
ragazzo, che portava scritto sulla fronte la parola “turista”.
Infatti, appena arrivato al bar della piazza, di cui la nonna era
cliente fissa (beveva un bicchierino di rosolio ogni due ore circa),
invece di dirigersi al bancone per ordinare si era accomodato al
tavolino aspettando di essere servito. Dopo i primi dieci minuti di
stoica attesa, il giovane aveva iniziato ad allungare il collo
cercando di attirare l'attenzione del barista, che senza fare una
piega aveva continuato a sistemare le bottiglie dietro al bancone. In
effetti, nulla avrebbe potuto schiodare il barista dalla sua
occupazione: non a caso in paese l'avevano soprannominato Mulo, per
la sua cocciutaggine e per la forza dei suoi calci. Mai Mulo aveva
servito al tavolo qualcuno e mai l'avrebbe fatto. Sempre più
spazientito, il povero e ignaro giovane continuava a sperticarsi
chiedendo un menu, mentre nonna Teodonia lo osservava con un misto di
divertimento e ammirazione, visto che ben pochi avrebbero mai osato
sfidare Mulo in quel modo. Ad un certo punto il turista aveva deciso
di provare ad ignorare il barista, così come il barista ignorava
lui, svanendo dietro il giornale. Era stato in quel momento che la
nonna gli aveva rubato la guida. Probabilmente il ragazzo non avrebbe
mai mostrato una tale ostinazione se avesse saputo con chi aveva a
che fare, tuttavia l'espressione decisa del giovanotto convinse la
nonna che meritava un premio prima di essere steso da un calcio di
Mulo.
Afferrò
una sedia e si sedette, sbattendo la guida del giovane sul tavolo. Il
turista, trasalendo, sbucò da dietro il giornale per trovarsi faccia
a faccia con nonna Teodonia, che senza perder tempo disse:
“La
tua guida è incompleta, giovanotto, fossi in te mi farei ridare i
soldi. Chiunque l'abbia scritta ha dimenticato la parte migliore
della storia!- Al ragazzo non fu lasciato neppure il tempo di fiatare
che la nonna riattaccò a parlare:
“Considerati
fortunato che ci sia io a colmare le tue enormi lacune, figliolo! È
arrivato il momento di posare in terra quel giornale e la dose di
presente che porta con sé perchè sto per iniziare a raccontare!”
Lanciò al giovane il tipico sguardo da
“sarò-anziana-ma-non-mettermi-alla-prova” e lui mise
obbedientemente sul tavolo il giornale, incrociando le braccia sul
tavolo in silenzio.
“Dunque”
nonna Teodonia si schiarì la voce e iniziò a parlare:
“Pare
che il 1544 fosse stato un anno molto freddo, anche se ai fini della
nostra storia è irrilevante. Ciò che conta è che Rocca Merletta
era governata dal conte Felberto Rasponi, ottimo nobile e pessima
persona. Ormai da cinque anni governava incontrastato, dopo essere
succeduto a suo padre, che era morto in un incidente di caccia,
durante una battuta a cui il figlio non aveva partecipato, ma in sua
vece aveva inviato un abile cacciatore per dare una mano all'anziano
genitore. Nessuno sa spiegarsi come mai il cacciatore sia diventato
in seguito cavaliere, ma i pochi che videro la ferita di Rasponi
padre affermarono di aver visto una zampata di orso identica ad un
colpo di spada. Ma questa è un altra storia.
Sta di
fatto che in quanto conte, aveva il diritto di importunare i
cittadini di Rocca Merletta come meglio credeva, anche se fino al
mese di giugno del 1544 si era limitato ad opprimerli solo con tasse
e sporadiche impiccagioni. Tuttavia, capitò che nel mese di giugno,
il conte Felberto Rasponi decidesse di andare in serata a fare una
passeggiata per i vicoli di Rocca Merletta, godendosi l'aria
profumata di fiori, che erano stati piantati lungo tutte le tortuose
stradine del paese per ammortizzare il miasma dovuto ai pitali che
venivano svuotati dalle finestre. Quando il conte si trovò a passare
per Vicolo Torto, la stradina che sale dietro il campanile, quella
dove oggi sta il ferramenta, fu colpito in pieno dallo schizzo di uno
dei tanti vasi di merda, svuotato dall'edificio sotto cui stava.
Furente, il conte guardò in alto, pronto a proclamare pene terribili
per lo stolto che aveva osato tanto, ma si trovò incapace di
parlare, perso negli occhi blu di una ragazza tondetta che chiedeva
perdono. Felberto si limitò a farle un sorriso ebete e facendole
segno di non preoccuparsi si avviò fischiettando verso il palazzo.
Qualche ora dopo, sdraiato nel suo letto su di un materasso di piume
e con la borsa dell'acqua calda sui piedi, il conte si rese conto di
essere innamorato. Tuttavia giovanotto, come ben saprai l'amore di
questo genere di persone muta spesso in ossessione, specie se la loro
amata li rifiuta e così accadde, poiché la giovane in questione era
già promessa al figlio del macellaio e anche molto innamorata.
Il
conte le provò tutte, dalle promesse di amore eterno alle minacce
più oscure, ma la giovane non cedeva. Dopo due settimane di assiduo
corteggiamento da parte del conte e tentate violenze il figlio del
macellaio decise di non poter più sopportare un affronto simile:
conte o no doveva pagare. Il ragazzo non era una cima, ma si rivelò
abbastanza furbo da ordire un piano, di cui mise a parte la sua
futura sposa. Lei infatti, avrebbe dovuto fingere di accettare la
proposta di matrimonio del conte e al resto avrebbe pensato lui.
Infatti, la sua famiglia era a conoscenza di un'antica ricetta di
salsicce, dal sapore così intenso e incredibile, tanto da creare un
tripudio di sapore nella bocca di chi le mangiava, che tuttavia
faceva impazzire le papille gustative sovrastimolando a tal punto i
sensi da uccidere il povero assaggiatore. Dopo una preparazione quasi
alchemica il giovane riuscì a creare la terribile salsiccia
assassina e la nascose con cura aspettando il momento adatto.
Così,
mentre il conte era sempre più infatuato dalla sua bella, il giovane
macellaio riuscì a corrompere un servo, che nella notte del 23
luglio del 1544, servì al suo signore la salsiccia assieme ad una
ricca porzione di verdura. Volle il caso che quella sera il conte
avesse voluto cenare in camera da letto e fu così che nessuno vide
ciò che accadde fra quelle mura. E quella fu la fine di Felberto
Rasponi e i due giovani promessi si sposarono prima dell'autunno.
Inoltre, grazie alle loro doti combinate, pare che siano riusciti a
mitigare gli effetti della salsiccia mortale, creando la ricetta che
ancora oggi viene seguita per le famose salsicce secche di Rocca
Merletta.”
Nonna
Teodonia smise di parlare e guardò il giovane che la fissava a bocca
aperta.
Fece
per parlare, ma la nonna lo anticipò ancora una volta.
“Spero
che tu non stia per chiedermi se questa storia è vera, ragazzo!
Perchè se una storia è buona rimane tale a prescindere se è vera o
meno. Pensa piuttosto se ti è piaciuta, se ti ha aperto gli occhi.”
La
nonna si alzò e fece per allontanarsi e tornare al suo tavolo, ma
poi si girò nuovamente verso il ragazzo che guardava perplesso la
sua guida rigirandosela tra le mani. La nonna gli sorrise e aggiunse:
“Ricordati,
non si viaggia solo con la testa. Sei venuto qui per vedere, non
lasciare che una guida ti copra gli occhi.”
Il
turista poggiò il libro sul tavolo e annuì ricambiando il sorriso.
“Grazie.”
disse poi a nonna Teodonia.
Nonna
Teodonia ridacchiò sotto i baffi quando vide il giovane filarsela
rapidamente evitando per un soffio uno dei calci di Mulo. Era stata
una bella mattina.
Cami/Bradipo
Iscriviti a:
Post (Atom)