giovedì 17 maggio 2012

Il capitano Bakkebaarden ed il terribile saccheggio delle banane

Cari, dolci e freschi lettori, ho tardato a presentarmi sul mio stesso blog (*il noooostro blog*, direi con voce da Gollum) ben sapendo che chiunque possa mai voler leggere un qualcheccosa scritto da me debba probabilmente essere qualcuno che già mi conosce e che mi vuole un gran bene. Sennò la cosa non si spiegherebbe.
A parte le mie auto-denigrazioni, vi annuncio che oggi, TATTARATà-TATà, vi ho portato una storia! Forse una favola, più che altro. Forse sono ossessionata dalla favole. Forse ora la smetterò di cianciare e copiaincollerò qui il racconto che le oscure parole di Carlo (banana-teletrasmittente) mi hanno ispirato.
Forse vi saluterò con un grande sorriso e con altrettanto grandi occhiaie! Buona notte, buona notte :) Miao!


Il capitano Bakkebaarden ed il terribile saccheggio delle banane

Correva l’anno 1901. Correva anche una nave, fendendo impietosa le acque dell’oceano e guadagnando con la fatica e la lotta contro le onde ogni metro rimanente che la separava dalle rigogliose coste d’Africa.
Ma più della nave (essa non aveva infatti alcun segno particolare che la distinguesse dalle altre navi) a noi interessano gli uomini che avevano vissuto  per settimane su quello sgraziato ammasso di metallo, senza soste. Già è importante notare, per capire le vicende qui narrate, che uomini disposti  a passare settimane facendo assaggiare ai propri piedi null’altro che il gelido acciaio, il cuoio delle scarpe e forse, a volte, il legno, son di certo stranissimi animali. Questi uomini, come se non bastasse, erano comandati da un animale ancor più strano:  era, egli, il capitano Bakkebaarden.
Il capitano Bakkebaarden coltivava strani vizi che erano diventati molto comuni tra i suoi simili. Amava infatti fumare la pipa, sputacchiare, tracannare litri di una sostanza velenosa misteriosamente chiamata alcool, sputacchiare e imporre la propria volontà su quella degli altri. Un suo ulteriore vizio, che condivideva con gli uomini del suo equipaggio, era inseguire navi mercantili, colpirle ripetutamente con fragorose cannonate ed infine saccheggiare tutte le ricchezze racchiuse nelle stive.
Il destino volle che su una di quelle sventurate navi, incontrata poco al largo della costa africana, i nobili filibustieri trovassero due telescriventi.  Queste erano all’epoca macchine innovative e dal grande valore; rimuovendo da una delle tastiere il cadavere di un marinaio trafitto da una baionetta, il capitano Bakkebaarden in persona si impossessò delle telescriventi e le riportò con sè nella propria cabina. Da allora, nessuno le vide più, nè se ne interessò. Fino a che...
Fino a che i nostri non gettarono l’ancora in una piccola spiaggia del Congo.
Bakkebaarden scese sulla terraferma e scelse di portare con sè in esplorazione un ristrettissimo gruppetto di uomini accuratamente selezionati: Hoofddeksel, un biondone roseo di due metri e sette centimetri, facilmente riconoscibile per l’elmo cornuto che indossava come discutibile tributo ai suoi antenati vichinghi;  Zekering, un nanetto scuro di capelli che sembrava l’antitesi di ogni altro marinaio presente sulla nave e che aveva una incontrollata passione per il fuoco;  e il giovane Kai, scelta dubbia ed inspiegabile in quanto costui era un marinaio smilzo, lentigginoso e pauroso che aveva trascorso i tre quarti del viaggio a vomitare sul ponte e a ripulirlo.
Quelle giornate furono gloriose, per l’equipaggio rimasto sulla nave: notte e dì vollero bere e dormire i marinai, ora che era lontano il feroce capitano Bakkebaarden. Quel che non sapevano e che probabilmente non avrebbero mai trovato interessante, non potendo prevedere come si sarebbe evoluta la vicenda, era che il loro capitano aveva stipato in un enorme sacco le due altrettanto enormi telescriventi e che aveva dato in affidamento questo sacco al gigantesco Hoofddeksel, incaricandolo di portarlo sempre con sè.

Erano ormai passate ventiquattr’ore da quando Bakkebaarden ed i suoi scagnozzi si erano allontanati dalla nave. Subito ad attenderli, pochi metri dopo il bagnasciuga, avevano trovato una fitta e verdissima foresta. Per tutto il giorno i il gruppetto aveva vagato in essa, i tre marinai confusi ed incerti e il capitano con un obiettivo ben preciso. Egli aveva messo i suoi sottoposti a conoscenza del semplice piano:  scopo di quella tappa era in realtà nientemeno che trovare la più famosa tribù del Congo, i Piesangs, rinomati in tutta Europa per il loro monopolio di quella nuova ricchezza che veniva ormai definita “l’oro più giallo dell’oro”: le banane. Eh già, perchè ormai in tutti i salotti dell’alta società, che ci si trovasse in Olanda o in Italia, in Inghilterra o in Germania, ciò che aveva sostituito le eleganti tartine di salmone erano le banane; ciò che aveva preso il posto del contorno per la carne, ancora le banane; invece delle grandi torte alla panna venivano serviti, ebbene sì, grandi dolci alle banane.
Erano le banane insomma, questi frutti esotici e misteriosi, che determinavano il grado di raffinatezza di un happening mondano. Così come sarebbero state le banane a permettere al capitano Bakkebaarden, almeno secondo i suoi piani, di abbandonare per sempre la vita del bucaniere, farsi un bel taglio di capelli con permanente e ritirarsi in qualche posto fresco e lontano dall’acqua dove tutti lo avrebbero chiamato “signore” limandogli le dita dei piedi. Anche se quest’ultima parte del suo piano, bisogna dirlo, già costituiva la sua vita di tutti i giorni.
Il capitano nutriva dunque la speranza di trovare la tribù dei Piesangs. Invece, com’era prevedibile, furono loro a trovare lui.
Il secondo giorno infatti, al mettere piede in una radura, i quattro avventurieri furono sorpresi da un’imboscata abilmente tesa dalla tribù indigena: in pochi secondi i nostri passarono dal credersi completamente soli e al sicuro al vedersi circondati da una quarantina di facce scure e dipinte con complicati motivi tribali, che li scrutavano con curiosità.
“Spacchiamo li le faccie!”, ruggì Hoofdekksel (le inesattezze grammaticali sono state meticolosamente lasciate nella frase per rendere il più fedelmente possibile il modo in cui fu pronunciata).
“Diamogli fuoco!”, urlò Zekering, agitando una tanica d’olio ed una scatola di fiammiferi che aveva tirato fuori da chissà dove.
“Mammina!”, squittì Kai terrorizzato, voltandosi e facendo per fuggire per fratte.
“Salve a voi, e che le banane crescano gialle sui vostri alberi!”, parlò il capitano Bakkebaarden in perfetto Piesangese e nel contempo acchiappando Kai per la collottola. Ma non ci fu effettivamente bisogno di trattenere il lentigginoso:  egli, i marinai e tutti gli indigeni, infatti, erano rimasti di sasso al sentire il capitano pronunciare parole in quella lingua rara.
“Io ed i miei tre...amici, veniamo da voi in pace per proporvi un equo scambio” Il capitano fece una pausa ad effetto, in cui la tensione nell’aria era palpabile insieme con la confusione dei tre marinai. Kai vomitò. “Osservate, prego, i magici artefatti del mio popolo i cui poteri incredibili potrebbero appartenervi anche seduta stante”
Così dicendo, egli fece cenno a Hoofdeksel di passargli il sacco contente le telescriventi; il gigante depositò questo pesantissimo sacco tra le braccia pelose del capitano; il capitano cadde in terra.
Ma subito si rialzò.
“Kai!”, sbraitò, in olandese, “fatti aiutare dall’idiota e portati laggiù una teletrasmittente”. Sotto gli sguardi incuriositi e divertiti degli indigeni, Hoofdeksel e Kai portarono una delle due macchine giganti ad una estremità della radura. Poi, il capitano si fece aiutare dal gigante a posizionare l’altra ad una certa distanza dalla prima.
Bakkebaarden alzò con gesto teatrale un dito in alto sopra la tastiera.
“Osservate il potere fluire attraverso le mie mani!”, urlò con voce tremante nella lingua indigena. Sembrava fuori di sè mentre, madido di sudore, cimentandosi nell’impersonazione di quello che secondo lui doveva essere un mago, batteva velocissimo sulla tastiera. Il testo risultante, che inviò subito alla telescrivente dell’appiccicaticcio Kai, fu: “Ashashala dammibadda ashamalla rashallà”.
Dopo un attimo di incertezza, arrivò al macchinario del capitano la risposta: “si?”.
Impossibile descrivere lo stupore e lo sgomento che tale comunicazione senza fili causò negli indigeni. Essi si agitavano, confabulavano, scuotevano le proprie lance. Infine, quello che sembrava essere il capo, in quanto più grasso e dipinto di tutti, avanzò a larghi passi verso Bakkebaarden.
“Cosa vorresti tu, mago bianchiccio, per i tuoi artefatti incantati?”, domandò nella propria lingua.
“Niente di più semplice, mio morbido amico: consentici di prelevare qualche chilo di banane”.
Improvvisamente la giungla risuonò di risate: erano i Piesangs, tutti insieme, che avevano preso a rotolarsi in terra e sembravano incapaci di trattenere l’ilarità che le parole del capitano avevano suscitato in loro. Il capo, specialmente, rideva con particolare trasporto.
“Banane?! Banane!? Voi credete che noi potremmo mai voler scambiare le nostre banane con questi ammassi di ferraglia?!”, riuscì infine a dire il pingue capo tribù. Poi, tornando serio: “Essi sono magici certo, divertenti, è vero,  ma lascia che ti chieda una cosa: puoi forse mangiarli?”
Bakkebaarden ed i pirati non risposero.
“E ti farò un’altra domanda:  reputi forse che la vostra sciocca magia sia superiore a quella delle banane? Ti credi migliore di un banano solo perchè il tuo popolo ha creato per te questi marchingegni? Bene, io ti dico: prova, come noi, a sedere per giorni di fronte ad un banano. Prova anche tu, per giorni e settimane, ad osservare un casco di banane crescere. L’hai mai visto, tu, che ti reputi tanto intelligente? Hai mai avuto il tempo, tu, di vedere la vita generare la vita?
Gli sciocchi gingilli che avete portato da lontano stupiscono, certo. Forse voi per essi avete anche trovato un buon utilizzo. Ma qui da noi chi vuole recare un messaggio, cammina. Chi vuole parlare con qualcun altro, si incontra. Chi vuole iniziare una conversazione, incrocia lo sguardo del suo interlocutore. Eppure sia nelle nostre terre che nelle vostre, immagino, le persone hanno bisogno di mangiare per vivere. Sono le banane, qui, che ci donano la vita. È a loro che dobbiamo la nostra salute e la nostra robustezza.
Non avrai banane, straniero pallidiccio. In loro risiede la vera forza; di loro noi ci nutriamo. Ma delle tue macchine, non sappiamo che farcene.
E adesso addio”.
Così parlò il capo, e con tutta la tribù voltò le spalle e se ne andò.
 Ma quella stessa notte Bakkebaarden e Zekering vollero dimostrare loro come le banane fossero in confronto alla civiltà totalmente prive di potere: e con l’olio e i fiammiferi appiccarono un grande fuoco e bruciarono il villaggio con molti dei suoi abitanti e tutte le sue banane.  Quando tornarono alla nave, dovettero annunciare che la missione era fallita, la fonte di guadagno perduta;  così dopo settimane e settimane di  viaggio i pirati tornarono alla patria, di pessimo umore.

Ma colui che più di tutti soffriva di malumore era lo sventato capitano Bakkebaarden. Egli infatti sapeva di aver fallito clamorosamente. Lo capiva non perchè ancora non aveva abbandonato la vita del bucaniere, perchè non poteva permettersi un nuovo taglio di capelli con permanente o perchè nessuno lo chiamasse più “signore” limandogli le dita dei piedi;  no, egli in cuor suo aveva compreso che il suo più grande fallimento era stato credere che la vera forza risiedesse nel potere di togliere la vita; e non in quello di donarla.




Marghe/ElfoMiope



4 commenti:

  1. Amica è bellissima questa storia! :3
    Mi piace la morale sulla natura e sul capire il vero valore delle cose che ci da il mondo.. bella bella! :D
    sgnerf!

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    1. moralemoralemorale...riuscirò mai a scrivere un racconto senza morale?? mmmh...
      :)

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    2. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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    3. daaaa volevo solo modificare il messaggio ed invece me l'ha brutalmente eliminato,
      comunque dice che la morale c'è in ogni storia, non è una cosa brutta, è il messaggio che vuoi mandare con essa :)

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