A parte le mie auto-denigrazioni, vi annuncio che oggi, TATTARATà-TATà, vi ho portato una storia! Forse una favola, più che altro. Forse sono ossessionata dalla favole. Forse ora la smetterò di cianciare e copiaincollerò qui il racconto che le oscure parole di Carlo (banana-teletrasmittente) mi hanno ispirato.
Forse vi saluterò con un grande sorriso e con altrettanto grandi occhiaie! Buona notte, buona notte :) Miao!
Il capitano
Bakkebaarden ed il terribile saccheggio delle banane
Correva
l’anno 1901. Correva anche una nave, fendendo impietosa le acque dell’oceano e
guadagnando con la fatica e la lotta contro le onde ogni metro rimanente che la
separava dalle rigogliose coste d’Africa.
Ma più della
nave (essa non aveva infatti alcun segno particolare che la distinguesse dalle
altre navi) a noi interessano gli uomini che avevano vissuto per settimane su quello sgraziato ammasso di
metallo, senza soste. Già è importante notare, per capire le vicende qui
narrate, che uomini disposti a passare settimane
facendo assaggiare ai propri piedi null’altro che il gelido acciaio, il cuoio
delle scarpe e forse, a volte, il legno, son di certo stranissimi animali.
Questi uomini, come se non bastasse, erano comandati da un animale ancor più
strano: era, egli, il capitano Bakkebaarden.
Il capitano Bakkebaarden coltivava
strani vizi che erano diventati molto comuni tra i suoi simili. Amava infatti
fumare la pipa, sputacchiare, tracannare litri di una sostanza velenosa
misteriosamente chiamata alcool, sputacchiare e imporre la propria volontà su quella
degli altri. Un suo ulteriore vizio, che condivideva con gli uomini del suo
equipaggio, era inseguire navi mercantili, colpirle ripetutamente con fragorose
cannonate ed infine saccheggiare tutte le ricchezze racchiuse nelle stive.
Il destino volle che su una di quelle
sventurate navi, incontrata poco al largo della costa africana, i nobili
filibustieri trovassero due telescriventi.
Queste erano all’epoca macchine innovative e dal grande valore;
rimuovendo da una delle tastiere il cadavere di un marinaio trafitto da una
baionetta, il capitano Bakkebaarden in persona si impossessò delle
telescriventi e le riportò con sè nella propria cabina. Da allora, nessuno le
vide più, nè se ne interessò. Fino a che...
Fino a che i nostri non gettarono
l’ancora in una piccola spiaggia del Congo.
Bakkebaarden scese sulla terraferma e scelse
di portare con sè in esplorazione un ristrettissimo gruppetto di uomini
accuratamente selezionati: Hoofddeksel, un biondone roseo di due metri e sette
centimetri, facilmente riconoscibile per l’elmo cornuto che indossava come
discutibile tributo ai suoi antenati vichinghi;
Zekering, un nanetto scuro di capelli che sembrava l’antitesi di ogni
altro marinaio presente sulla nave e che aveva una incontrollata passione per
il fuoco; e il giovane Kai, scelta
dubbia ed inspiegabile in quanto costui era un marinaio smilzo, lentigginoso e
pauroso che aveva trascorso i tre quarti del viaggio a vomitare sul ponte e a
ripulirlo.
Quelle giornate furono gloriose, per
l’equipaggio rimasto sulla nave: notte e dì vollero bere e dormire i marinai,
ora che era lontano il feroce capitano Bakkebaarden. Quel che non sapevano e
che probabilmente non avrebbero mai trovato interessante, non potendo prevedere
come si sarebbe evoluta la vicenda, era che il loro capitano aveva stipato in
un enorme sacco le due altrettanto enormi telescriventi e che aveva dato in
affidamento questo sacco al gigantesco Hoofddeksel, incaricandolo di portarlo
sempre con sè.
Erano ormai passate ventiquattr’ore da
quando Bakkebaarden ed i suoi scagnozzi si erano allontanati dalla nave. Subito
ad attenderli, pochi metri dopo il bagnasciuga, avevano trovato una fitta e
verdissima foresta. Per tutto il giorno i il gruppetto aveva vagato in essa, i
tre marinai confusi ed incerti e il capitano con un obiettivo ben preciso. Egli
aveva messo i suoi sottoposti a conoscenza del semplice piano: scopo di quella tappa era in realtà nientemeno
che trovare la più famosa tribù del Congo, i Piesangs, rinomati in tutta Europa per il loro
monopolio di quella nuova ricchezza che veniva ormai definita “l’oro più giallo
dell’oro”: le banane. Eh già, perchè ormai in tutti i salotti dell’alta società,
che ci si trovasse in Olanda o in Italia, in Inghilterra o in Germania, ciò che
aveva sostituito le eleganti tartine di salmone erano le banane; ciò che aveva
preso il posto del contorno per la carne, ancora le banane; invece delle grandi
torte alla panna venivano serviti, ebbene sì, grandi dolci alle banane.
Erano le banane insomma, questi frutti
esotici e misteriosi, che determinavano il grado di raffinatezza di un happening mondano. Così come sarebbero
state le banane a permettere al capitano Bakkebaarden, almeno secondo i suoi
piani, di abbandonare per sempre la vita del bucaniere, farsi un bel taglio di
capelli con permanente e ritirarsi in qualche posto fresco e lontano dall’acqua
dove tutti lo avrebbero chiamato “signore” limandogli le dita dei piedi. Anche
se quest’ultima parte del suo piano, bisogna dirlo, già costituiva la sua vita
di tutti i giorni.
Il capitano nutriva dunque la speranza
di trovare la tribù dei Piesangs. Invece, com’era prevedibile, furono loro a
trovare lui.
Il secondo giorno infatti, al mettere
piede in una radura, i quattro avventurieri furono sorpresi da un’imboscata
abilmente tesa dalla tribù indigena: in pochi secondi i nostri passarono dal
credersi completamente soli e al sicuro al vedersi circondati da una quarantina
di facce scure e dipinte con complicati motivi tribali, che li scrutavano con
curiosità.
“Spacchiamo li le faccie!”, ruggì Hoofdekksel
(le inesattezze grammaticali sono state meticolosamente lasciate nella frase
per rendere il più fedelmente possibile il modo in cui fu pronunciata).
“Diamogli fuoco!”, urlò Zekering,
agitando una tanica d’olio ed una scatola di fiammiferi che aveva tirato fuori
da chissà dove.
“Mammina!”, squittì Kai terrorizzato,
voltandosi e facendo per fuggire per fratte.
“Salve a voi, e che le banane crescano
gialle sui vostri alberi!”, parlò il capitano Bakkebaarden in perfetto
Piesangese e nel contempo acchiappando Kai per la collottola. Ma non ci fu
effettivamente bisogno di trattenere il lentigginoso: egli, i marinai e tutti gli indigeni, infatti,
erano rimasti di sasso al sentire il capitano pronunciare parole in quella
lingua rara.
“Io ed i miei tre...amici, veniamo da
voi in pace per proporvi un equo scambio” Il capitano fece una pausa ad
effetto, in cui la tensione nell’aria era palpabile insieme con la confusione
dei tre marinai. Kai vomitò. “Osservate, prego, i magici artefatti del mio
popolo i cui poteri incredibili potrebbero appartenervi anche seduta stante”
Così dicendo, egli fece cenno a
Hoofdeksel di passargli il sacco contente le telescriventi; il gigante
depositò questo pesantissimo sacco tra le braccia pelose del capitano; il capitano
cadde in terra.
Ma subito si rialzò.
“Kai!”, sbraitò, in olandese, “fatti
aiutare dall’idiota e portati laggiù una teletrasmittente”. Sotto gli sguardi
incuriositi e divertiti degli indigeni, Hoofdeksel e Kai portarono una delle
due macchine giganti ad una estremità della radura. Poi, il capitano si fece
aiutare dal gigante a posizionare l’altra ad una certa distanza dalla prima.
Bakkebaarden alzò con gesto teatrale un
dito in alto sopra la tastiera.
“Osservate il potere fluire attraverso
le mie mani!”, urlò con voce tremante nella lingua indigena. Sembrava fuori di
sè mentre, madido di sudore, cimentandosi nell’impersonazione di quello che
secondo lui doveva essere un mago, batteva velocissimo sulla tastiera. Il testo
risultante, che inviò subito alla telescrivente dell’appiccicaticcio Kai,
fu: “Ashashala dammibadda ashamalla rashallà”.
Dopo un attimo di incertezza, arrivò al
macchinario del capitano la risposta: “si?”.
Impossibile descrivere lo stupore e lo
sgomento che tale comunicazione senza fili causò negli indigeni. Essi si
agitavano, confabulavano, scuotevano le proprie lance. Infine, quello che
sembrava essere il capo, in quanto più grasso e dipinto di tutti, avanzò a
larghi passi verso Bakkebaarden.
“Cosa vorresti tu, mago bianchiccio, per
i tuoi artefatti incantati?”, domandò nella propria lingua.
“Niente di più semplice, mio morbido
amico: consentici di prelevare qualche chilo di banane”.
Improvvisamente la giungla risuonò di
risate: erano i Piesangs, tutti insieme, che avevano preso a rotolarsi in terra
e sembravano incapaci di trattenere l’ilarità che le parole del capitano
avevano suscitato in loro. Il capo, specialmente, rideva con particolare
trasporto.
“Banane?! Banane!? Voi credete che noi potremmo
mai voler scambiare le nostre banane con questi ammassi di ferraglia?!”, riuscì
infine a dire il pingue capo tribù. Poi, tornando serio: “Essi sono magici
certo, divertenti, è vero, ma lascia che
ti chieda una cosa: puoi forse mangiarli?”
Bakkebaarden ed i pirati non risposero.
“E ti farò un’altra domanda: reputi forse che la vostra sciocca magia sia
superiore a quella delle banane? Ti credi migliore di un banano solo perchè il
tuo popolo ha creato per te questi marchingegni? Bene, io ti dico: prova, come
noi, a sedere per giorni di fronte ad un banano. Prova anche tu, per giorni e
settimane, ad osservare un casco di banane crescere. L’hai mai visto, tu, che
ti reputi tanto intelligente? Hai mai avuto il tempo, tu, di vedere la vita
generare la vita?
Gli sciocchi gingilli che avete portato
da lontano stupiscono, certo. Forse voi per essi avete anche trovato un buon
utilizzo. Ma qui da noi chi vuole recare un messaggio, cammina. Chi vuole
parlare con qualcun altro, si incontra. Chi vuole iniziare una conversazione,
incrocia lo sguardo del suo interlocutore. Eppure sia nelle nostre terre che
nelle vostre, immagino, le persone hanno bisogno di mangiare per vivere. Sono
le banane, qui, che ci donano la vita. È a loro che dobbiamo la nostra salute e
la nostra robustezza.
Non avrai banane, straniero pallidiccio.
In loro risiede la vera forza; di loro noi ci nutriamo. Ma delle tue macchine,
non sappiamo che farcene.
E adesso addio”.
Così parlò il capo, e con tutta la tribù
voltò le spalle e se ne andò.
Ma quella stessa notte Bakkebaarden e
Zekering vollero dimostrare loro come le banane fossero in confronto alla
civiltà totalmente prive di potere: e con l’olio e i fiammiferi appiccarono un
grande fuoco e bruciarono il villaggio con molti dei suoi abitanti e tutte le
sue banane. Quando tornarono alla nave, dovettero
annunciare che la missione era fallita, la fonte di guadagno perduta; così dopo settimane e settimane di viaggio i pirati tornarono alla patria, di
pessimo umore.
Ma colui che più di tutti soffriva di
malumore era lo sventato capitano Bakkebaarden. Egli infatti sapeva di aver
fallito clamorosamente. Lo capiva non perchè ancora non aveva abbandonato la
vita del bucaniere, perchè non poteva permettersi un nuovo taglio di capelli
con permanente o perchè nessuno lo chiamasse più “signore” limandogli le dita
dei piedi; no, egli in cuor suo aveva
compreso che il suo più grande fallimento era stato credere che la vera forza risiedesse
nel potere di togliere la vita; e non in quello di donarla.
Amica è bellissima questa storia! :3
RispondiEliminaMi piace la morale sulla natura e sul capire il vero valore delle cose che ci da il mondo.. bella bella! :D
sgnerf!
moralemoralemorale...riuscirò mai a scrivere un racconto senza morale?? mmmh...
Elimina:)
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Eliminadaaaa volevo solo modificare il messaggio ed invece me l'ha brutalmente eliminato,
Eliminacomunque dice che la morale c'è in ogni storia, non è una cosa brutta, è il messaggio che vuoi mandare con essa :)