sabato 27 ottobre 2012

Racconto - FeFe

Ciao a tutti! 
E' con l'occasione di un'ora di attesa per ritirare un libro che ho deciso di rompere la pausa "estiva". Quindi ecco a voi un nuovo racconto fresco fresco. Stavolta non si tratta di un "dueparole", ma di un racconto a parte, per il quale non ho volutamente scelto un titolo. Vorrei continuarlo, ma non ne sono sicuro, così come non sono sicuro di alcune cose nel testo, come per esempio il sesso del protagonista. Ergo, se notate errori e/o avete suggerimenti, vi prego di scriverli nei commenti! :-)
Grazie e buona lettura a tutti! :-D
FeFe

Racconto

Voleva scappare. Era tutto quello che sapeva. Stava nella sua stanza fissando la finestra. Il cielo era grigio, lo era da molto tempo. Non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva visto la luce del Sole, ed aveva sentito il suo tepore sulla pelle. La gioia, quella gioia di sentirsi felice di vivere secondo i propri sogni, secondo quello che sentiva dentro. L’aveva mai provata? Aveva realmente vissuto in quel modo? Forse.. non riusciva a ricordare. Aveva di certo vissuto, ma non secondo ciò che provava, bensì secondo quello che provava qualcun altro che decideva per lui. Se ne era accorto in un pomeriggio di luglio, mentre passeggiava per la città senza una meta; non l’aveva mai fatto, era la prima volta. In ogni momento della sua vita aveva sempre fatto qualche cosa. Anche quando riposava sentiva il bisogno di fare, altrimenti avrebbe perso tempo. Il TEMPO: quell’impalpabile sensazione che sfugge, scappa via e non ritorna. Sapeva di non doverlo perdere, poiché era prezioso. Lo custodiva gelosamente e sentiva di doverne sfruttare ogni secondo per non restare indietro. Ora non più: quel pomeriggio aveva detto BASTA. Aveva preso la borsa con dentro un libro e si era diretto verso la città. Non aveva una meta, voleva perdersi ed i vicoli del vecchio centro si adattavano bene allo scopo. Si avventurava nelle viuzze strette come ci si avventura in un pensiero insolito che balena improvvisamente nella testa. E così come un pensiero porta ad un altro, le vie sfociavano l’una nell’altra senza fine: un fiume che scorre. Il fiume delle vie, il fiume dei pensieri. Era bello. Finalmente si sentiva sé stesso, sentiva il suo cuore e i suoi desideri, senza più filtri, senza più influenze esterne. Aveva assaggiato un boccone di libertà ed ora voleva farne indigestione.

La pioggia aveva iniziato a cadere incessantemente. Batteva forte sul vetro, così come gli ordini di chi pensa di poter imporre la propria volontà sulla libertà altrui. “BASTA!” si ripeteva in testa. Sentiva il bisogno d’aria fresca, un’aria ristoratrice che potesse salvarlo. Si voltò verso l’interno della camera. Vedeva le sue cose: regali, acquisti, spesso oggetti superflui presi per calmare momentaneamente la tristezza dell’animo: la splendida illusione della sua epoca. Ispezionò attentamente ogni oggetto. Catalogò mentalmente quelli che per lui erano indispensabili. Di colpo, quasi fosse vittima di un raptus, tirò fuori una grande borsa ed iniziò ad infilarci dentro alla rinfusa ciò che aveva individuato come indispensabile. Quando ebbe finito si concesse un attimo per riprendersi. Si sedette sul letto e chiuse gli occhi respirando lentamente: voleva fuggire ma aveva paura, la stessa paura  che si impossessa di chi, per salvarsi da una situazione pericolosa, deve necessariamente buttarsi nel vuoto. Sentiva la stessa vertigine, la medesima paura. Doveva buttarsi, ma guardandosi indietro ripensava alla sua “prigione” e la vedeva ora come un luogo confortevole e sicuro, un posto in cui forse poteva restare, se avesse imparato ad accettare tutti quegli odiati compromessi che ora sembravano quasi accettabili in cambio di quella cella che somigliava adesso ad un bellissimo giardino. Tuttavia, anche Adamo ed Eva vivevano in un paradiso meraviglioso, ma la voglia di conoscere li aveva spinti a trasgredire. Volevano la conoscenza ed in cambio avevano ottenuto la “cacciata dal paradiso terrestre”. Tramite la punizione avevano però potuto conoscere il resto del mondo che li circondava, un mondo strano, talvolta bello, talvolta crudele, ma comunque più grande di un giardino.

Aprì gli occhi, guardò la porta. Si alzò di scatto. Prese la borsa e afferrò la maniglia..

FeFe

martedì 19 giugno 2012

"dueparole" - Pausa!

Come già annunciato dalla nostra ElfoMiope, dueparole andrà in "vacanza" per l'opprimente sessione d'esami che tutti e tre stiamo vivendo..
Nel frattempo verranno pubblicati i racconti restanti delle precedenti settimane ed altri racconti degli autori, non inerenti alla sezione dueparole.
Buona lettura e buono studio! D:
:)
FeFe

domenica 17 giugno 2012

Un Processo - ElfoMiope


Bonsoir! Come accennato in precedenza, mi trovo sotto molteplici esami. Ciò ha fatto sì che ciò che restava di minimamente coerente nel mio cervello andasse perduto per sempre (o almeno fino a inizio Luglio), e questa storia ne è il tragico risultato.
Sarete contenti adesso, professori. Sarete contenti, di aver creato un'idiota :)

ps: è con rammarico dolorequem che vi annuncio che io ed i miei due altrettantosottoesami compagni abbiamo deciso di sospendere il dueparole fino a quando non saremo certi di esserci tratti in salvo da quella terribile nave naufragante che è l'inizio dell'Estate per gli studenti.

UN PROCESSO    Apologia del Tempo
 “L’assassino è il Tempo, Signor Giudice”, esordì l’accusa, nelle spoglie dell’avvocato Pagliuzzi. Sotto gli occhi del giudice, della giuria e della famiglia del morto, l’allampanato Pagliuzzi camminò con passo teatrale attraverso l’aula, sino a trovarsi di fronte al Tempo; sul banco di quest’ultimo l’avvocato ebbe cura di sbattere con violenza un pesante fascicolo di fogli, causando un gran frastuono. Il Tempo restò impassibile.
“Tutte le prove testimoniano a suo sfavore, tutte le strade portano a lui”, continuò Pagliuzzi, un po’ deluso dall’assenza di reazioni da parte dell’accusato. “Testimoni oculari, tra i quali ho scelto di includere non solo alcuni familiari ma anche l’infermiere e la farmacista che vedevano la nostra vittima tutti i giorni, sono qui pronti a giurare di aver assistito in prima persona  al lento e sadico omicidio perpetrato dal Tempo qui presente ai danni di Giacomo Vegliardi”
“Che parli un testimone, allora”, fece il giudice, sbrigativo. Aveva il raffreddore e nemmeno un processo tanto inusuale poteva risvegliare il suo entusiasmo, al momento. Incurante dell’opinione dei presenti, sciolse nell’acqua due aspirine e le trangugiò.
Intanto alla sua esortazione una donna vestita di grigio si era alzata dal banco dei testimoni: era la farmacista, gestiva il negozio dove il morto (quand’era ancora vivo, s’intende) per quarant’anni si era recato quasi ogni giorno, fino all’ultimo, a comprare quantità industriali di medicine. La donna portava i capelli legati stretti, ed un attento osservatore avrebbe potuto capire che era agitata notando le gocce di sudore che le si formavano sulla nuca.
“Io sono Amanda Cenere, Vostro Onore”, esordì la donna con voce vagamente tremolante. “Ed il signor Vegliardi lo conoscevo bene, per così dire, o almeno lo vedevo praticamente tutti i giorni. Il signore infatti è sempre venuto a comprare le medicine da noi, prima ancora che io iniziassi a lavorare alla farmacia. Sempre vissuto nello stesso posto, sempre gentile, il signor Vegliardi. Pensi che una volta-“, La signora Cenere s’interruppe, bloccata da uno sguardo eloquente dell’avvocato Pagliuzzi. Svelta, cambiò di nuovo argomento: “Insomma, Vostro Onore, tutto è andato sempre bene per il signor Vegliardi, all’apparenza, ma io lo vedevo, che c’era qualcosa che non andava. I capelli, ad esempio:  i suoi capelli diventavano di anno in anno più bianchi, come a testimoniare un grande stress emotivo, o un terribile shock. E il viso, Vostro Onore, il viso! Ogni giorno vi si tracciavano nuovi profondi solchi, che rendevano le sue espressioni sempre più grottesche. E poi, negli ultimi tempi, il signore camminava chino, zoppicante, con grande fatica: pareva che qualcuno lo avesse riempito di bastonate, senza pietà. Infine, un giorno non è più tornato.
Ma io ho capito subito cosa fosse successo e in realtà già l’avevo capito prima che accadesse: il signor Vegliardi è stato ucciso, anzi no, seviziato per anni ed anni, portato lentamente verso una morte snaturata. E non è il primo che vedo finire così, oh no, Vostro Onore, non è il primo! L’ho sempre sospettato, ma solo ora ho il coraggio di dirlo: è il Tempo, l’assassino! È stato lui a tormentare e terrorizzare il povero signor Vegliardi, fino a condurlo alla morte!”. La signora Cenere era parsa sempre più accaldata durante il suo lungo intervento, tanto che la sua incertezza iniziale era svanita senza lasciare traccia. La donna si voltò verso l’accusato dall’altra parte dell’aula, con un fare teatrale che probabilmente aveva attentamente studiato guardando chissà quale telefilm americano.
“Grazie, signora Cenere”, parlò allora Pagliuzzi, mellifluo, poggiando una mano sulla spalla della donna con fare paterno. “Come vedete, Signor Giudice, l’accusa della nostra rispettabile testimone è ben fondata e logica. Siamo tutti consci, infatti, dei terribili poteri che il Tempo ha a disposizione, e di come spesso si risolva ad usarli così, con tale barbarie, sui normali cittadini. Ma ora, Vostro Onore, se permette io chiamerei a parlare un altro testimone, il signor- “.
“Aspetti un attimo, Pagliuzzi”, lo interruppe però il giudice, volgendosi verso il banco dove Tempo stava impassibile. “Voglio ascoltare anche l’altra parte in causa. Tempo, ha portato con lei un legale, a strutturare la difesa?”
“No, Signor Giudice”, fu la prima frase pronunciata da Tempo in tutto il processo, “Parlerò io stesso in mia difesa”.
Tutti erano tesi verso l’accusato, ansiosi di veder cadere infine quello che consideravano il loro oppressore.
“Non mi trovo qui in aula perché sono stato accusato dal signor Pagliuzzi, oggi, né per difendermi da lui. Il buon avvocato segue probabilmente un interesse personale nel convocarmi qui cercando di attuare la mia rovina. Infatti egli teme me più di ogni altra cosa, è terrorizzato dal pensiero di finire come il signor Vegliardi, ogni nuovo capello bianco che si scopre durante le sue lunghe ispezioni allo specchio è per lui fonte di infinito tormento…”
“Irrilevante, Vostro Onore!”, strepitò Pagliuzzi, “Bugie, invenzioni!”
Il giudice riprese il Tempo, intimandogli di attenersi al processo. Questi acconsentì di buon grado.
“Ad ogni modo, Signor Giudice ed esseri umani qui riuniti, io sono tra voi oggi per aprirvi gli occhi. Quando avrò finito di parlare vi sarà chiaro che non io, bensì i vostri compagni terreni sono la causa della vostra fine”. Qui, un mormorio si diffuse nella sala, mentre tutti borbottavano senza capire le parole arcane dell’accusato.
“Sono addolorato per il Signor Vegliardi e per tutti coloro che si trovano a perdere la vita, spesso dopo prolungate sofferenze. Voi mi temete, perché ritenete che il mio scorrere vi porti man mano alla morte. Quasi come se io, da solo, potessi consumarvi lentamente, come se ogni minima frazione di me, ogni mio secondo, mano a mano rompesse irreparabilmente piccoli pezzi del vostro corpo. Come se io, il Tempo, procedendo rubassi tempo a voi. Ma come può il Tempo rubare il tempo? Non sono io che faccio avvizzire la vostra pelle, ‘arrugginire’ i vostri organi. Siete voi stessi, l’utilizzo che voi fate di voi stessi, a far sì che vi decomponiate lentamente. Io da solo non posso nuocervi affatto, ma l’aria che respirate, il cibo che mangiate…tutto fa sì che il vostro corpo imperfetto si stanchi. Come a dire che gli esseri viventi non hanno un limite di tempo, ma di utilizzo.
Io, il Tempo, sono solo un contenitore, l’arena all’interno della quale a voi e ad ogni altro oggetto o essere vivente è data piena libertà.  All’interno del Tempo si svolgono tutte le vicende: microscopiche, macroscopiche e nel vostro caso umane, in un infinito compenetrarsi. È l’attrito tra voi ed ogni altra componente del mondo che vi scalfisce, che vi porta via i pezzi.
Io e lo Spazio, vostri benefattori in quanto condizioni imprescindibili per la vostra esistenza, ci limitiamo a guardare.
L’invecchiare, dunque, a cui pone fine la vostra morte naturale, è frutto semplicemente del vostro continuo interagire con il resto del mondo, che si svolge sì all’interno di me, ma che da me non dipende in alcun modo. Così è stato e così sempre sarà; e se permettete che io qui vi lasci qualcosa su cui riflettere, non c’è niente di orribile nella Morte”.
Così terminò il Tempo il suo lungo discorso, a cui seguì un silenzio gelido. Nessuno dei presenti aveva l’aria di aver apprezzato particolarmente le parole dell’accusato. Pagliuzzi, anzi, colse al volo l’occasione per iniziare nuovamente a protestare, il suo tipico tono mellifluo gettato alle ortiche, e ben presto a lui si unì l’aula intera. Nel trambusto che seguì, tra gente che si alzava e agitava i pugni, il Tempo esasperato decise di girare i tacchi (o qualunque cosa il Tempo indossi al posto dei tacchi) ed andarsene. Sospirando, stropicciandosi le tempie con una mano, la sua figura impallidì progressivamente sino a sparire, e tanta era l’agitazione dei presenti che nessuno se ne accorse.
Solo il giudice, confuso, dovette ripensare a quel momento in particolare, perché gli parve distintamente di udire la voce gentile del Tempo sussurrargli in un orecchio: “La Morte non sarà male, amico mio, ma lascia che ti dia un consiglio: vacci piano con le aspirine”.


Marghe/ElfoMiope

mercoledì 13 giugno 2012

dueparole5

Gli esami straziano i nostri animi indeboliti, ed i post sono sempre più radi e sparpagliati. È dunque con fierezza e ben tre giorni di ritardo che vi comunico le due wowwose parole della settimana, gentilmente forniteci dalla Cosa:

Aspirina - Un farmaco antiinfiammatorio non-steroideo della famiglia dei salicilati.

Tempo - Il tempo è la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi. Essa induce la distinzione tra passato, presente e futuro. La complessità del concetto è da sempre oggetto di studi e riflessioni filosofiche e scientifiche


Marghe

venerdì 8 giugno 2012

L'artista - ElfoMiope


          Bene. è meglio che io non commenti il significato di questa storia, che penso si possa intuire comunque :)

                                                               L'artista

C’era una volta un grande Re. Questo Re, non essendo mai stato costretto ad entrare in guerra contro un qualche altro sovrano dei paesi vicini, si trovava costantemente a disporre di molto tempo libero. Per colmare dunque le sue lunghe giornate, aveva invitato ad abitare nel proprio castello decine e decine di artisti: v’erano, in quelle stanze di pietra, musici straordinari dalle voci simili al cinguettare degli uccelli, giullari i cui giochi facevano tremare l’intero castello per le risate degli spettatori, maghi capaci di stupire il più scettico degli alchimisti con migliaia di trucchi incredibili.
Eppure, il favorito del Re restava Aloisio.
Aloisio era un pittore, ma uno di straordinaria bravura. Da tutto il regno erano venuti  a sfidarlo, per guadagnarsi un posto alla corte del Re; eppure, nessuno era nemmeno riuscito ad avvicinarsi al suo genio.
I dipinti di Aloisio infatti sembravano magici: raffiguravano scenari meravigliosi e terre mai viste, tanto che in essi pareva potersi riflettere tutto il mondo che certamente si trovava racchiuso nella testa del pittore. Egli rendeva possibile l’impossibile: con una pennellata, nascevano le montagne. Un colpo di spatola, e uno zigomo si stagliava fiero su di un volto. E Aloisio, sebbene non ne facesse parola con il Re (infatti non credeva che qualcun altro, che non fosse lui stesso, potesse essere in grado di comprendere appieno la sua interiorità), assegnava ad ogni singolo tratto un significato. Nulla, per lui, era casuale. Sicuramente era questo che rendeva i suoi dipinti così straordinari: v’erano in essi infiniti significati nascosti, complessi ragionamenti che si traducevano, con un processo totalmente spontaneo, in immagini fantastiche. Impossibile non intuirlo, nonostante il pittore non fosse prodigo di spiegazioni.
In poche parole, l’arte di Aloisio faceva faville a corte ed il Re lo stimava e lo considerava un grande amico.
Fino al giorno in cui l’artista fece il suo ingresso nel castello.
L’artista era un uomo di mezz’età, benestante. Fin dalla prima volta in cui mise piede sul tappeto rosso del Re, gli occhi di tutti erano per lui. Emanava, dal suo sguardo, una sorta di aura di intelligenza, di sicurezza, con una dose di prepotenza che lasciò tutti a bocca aperta. Ad una guardia all’ingresso si spalancò addirittura l’elmo, con indubbio effetto cinematografico, rivelando uno sguardo imbambolato fisso su quello strano figuro.
L’artista si portò a grandi passi verso la lunga tavola imbandita dove il Re sedeva con Aloisio, immerso in una animata ma amichevole discussione. Quando fu giunto di fronte al sovrano, si esibì in un impercettibile inchino e con voce alta e sicura pronunciò queste parole:
“Vostra Maestà, mi presento: io sono Ambrogio Martino Secondo, e sono stato condotto fino a voi dal desiderio di diventare l'artista di corte”.
Il Re smise di parlare e volse lo sguardo sul nuovo arrivato.
“Ma io ho già un artista di corte, mio buon Ambrogio Paolino: è seduto ora al mio fianco. Dubito fortemente che tu possa anche solo avvicinarti, con la tua arte, alla sua magnificenza”.
Allora Aloisio non poté esimersi dall’entrare nella conversazione:
“Non siate precipitoso, mio Re”, esordì con modestia, “di artisti migliori di me sicuramente ne son nati e ancora ne nasceranno. Perché non mostrate al nostro Signore ciò di cui siete capace, Messer Ambrogio? Di sicuro avrete portato con voi uno o più esemplari del vostro lavoro”.
Allora l’artista, con grande stupore di tutti, avanzò di qualche passo e sputò nel piatto del Re. Poi, sotto gli sguardi attoniti della corte intera, raccolse il piatto e lo mostrò, alzandolo alto sopra la testa.
“Questa è la mia arte, mio Re!”, gridò; e come furioso scagliò il piatto in terra. Mille pezzi di terracotta volarono in tutte le direzioni.
Tutti i presenti fissavano l’artista ed i cocci, senza parole. Aloisio solo rideva esilarato, rompendo l’esterrefatto silenzio.
Infine, dopo quelle che parvero ore nell'atmosfera paralizzata della sala, il Re si alzò e parlò, balbettando:
“Ma… ma questo è oltraggioso, sì, oltraggioso… io, io ti chiedo perché l’hai fatto, e e ti ordino di rispondermi!”. Mai prima si era udito Re parlare con tono più incerto e minor convinzione.
“L’ho fatto, mio Re, per meravigliarvi", fu la risposta di Ambrogio, il quale esibiva ora un enigmatico sorrisetto, "Non è forse questo che fa il vostro artista di corte tutti i giorni, Sire, meravigliarvi? Io posso farlo anche ogni minuto, se me lo concederete. Vi garantisco che non conoscerete più la noia, con me”.
Aloisio smise finalmente di ridere: “Ma questo è inaudito, mio Re! Meravigliarvi? Ogni cosa può meravigliarvi, se glielo concedete, poichè ogni cosa è meravigliosa! Ogni suono, ogni odore… ma io cerco ogni giorno di farvi sognare con me, Sire, di portarvi con me nei miei infiniti viaggi della mente, mostrandovi cose che non si trovano da alcun'altra parte. Io voglio comprendere e imparare con voi, mio Re, non compiere gesti criptici volti solo ad un vile meravigliare, che invero meravigliare non è!”
Eppure il Re sembrava come sotto l’effetto di un incantesimo. “Mio buon Aloisio, amico mio”, iniziò, pensieroso, “non essere precipitoso, suvvia. Non vedi quanto sia nuovo ciò che il buon Ambrogio, qui, ha creato? Non provi anche tu un grande sconvolgimento? Nessuno, nessuno, si era mai comportato così in mia presenza. Eppure io non percepisco insulto alcuno! Vorrei, vorrei vedere altre cose di questo genere, comprenderne l’origine.” Qui sembrò riflettere per un secondo. “Ma sì, per Dio, c’è posto per più di un artista qui a corte! Ambrogio, fatemi l’onore di rimanere con noi, vi prego, meravigliatemi ancora.”
Aloisio era sconvolto, Ambrogio Martino raggiante; e tutta la corte annuiva con convinzione alle parole del Re, tutti volevano che l’artista li meravigliasse ancora e ancora.
Quello fu il giorno in cui iniziò il tramonto di Aloisio. Nessuno, adesso, sembrava più voler vedere le sue opere, passare del tempo a scoprire tutti i particolari e le minuzie dietro alle quali si celavano tante idee e tanti segreti. Il grande salone di pietra era diventato il regno di Ambrogio, ora, il regno delle sue folli trovate. Non passava giorno che l’artista non si rotolasse per terra, o prendesse una dama a capocciate, o leccasse un orecchio a qualcuno. Faceva tutto parte della sua opera d’arte, diceva.
E le opere di Aloisio, sole, rattrappivano.


Marghe/ElfoMiope

L'arte della guerra


Una strana storia sulle parole arte e meraviglia.

La cella puzzava di umido e muffa. Un debole filo di luce passava attraverso una grata sulla parete, illuminando l'ambiente. L'uomo, rannicchiato in un angolo, osservava la lenta danza dei corpuscoli di polvere che svolazzavano sotto la luce, senza tuttavia vederla davvero. Era un tipo massiccio dalla folta barba incolta, segno del fatto che si trovava in quel luogo da un tempo sufficientemente lungo, ma non eccessivo visto che sembrava ancora in forze. I vestiti erano stracciati e sul corpo portava segni di violenze, lividi e tagli più o meno recenti, dei quali però non sembrava nemmeno accorgersi come se in vita sua avesse subito di peggio. Ad ogni modo, il prigioniero nella cella in quel momento non se ne sarebbe comunque curato, poichè per la prima volta nel corso della sua lunga esistenza stava riflettendo.
Ascoltando le ritmiche pulsazioni del suo cuore, osservava con un senso di crescente meraviglia i pensieri prendere forma nella sua mente, liberi, ma soprattutto suoi. Fuori da quella cella e in un'altra vita, era stato un soldato e i soldati hanno l'ordine di non pensare, ma solo di obbedire.
Era così assorto da non rendersi conto del forte formicolio che partendo dai piedi si stava espandendo in tutto il corpo, un atto di ribellione delle sue membra per essere state costrette tanto a lungo in una scomoda posizione. Non vedeva più nemmeno i topi che squittendo giravano per la cella e che in un altro momento avrebbe cercato di catturare. Ciò che invece scorreva dietro ai suoi occhi erano le immagini della sua vita passata.
Lui era stato il migliore, il più grande spadaccino che il mondo avesse mai visto. Non solo grazie alla forza che madre natura gli aveva dato, ma anche grazie al duro addestramento che si era imposto: la sua parola d'ordine era stata disciplina. Altrimenti, come avrebbe potuto arrivare fin dove era arrivato? Come avrebbe potuto un semplice ragazzino di campagna scalare i vertici dell'esercito e diventare il generale supremo? Per un istante si rivide a sedici anni, con un sacco di tela in spalla e quattro stracci addosso, mentre varcava sotto gli occhi vigili delle guardie il grande cancello di Tharia, la capitale dell'Impero. Risentì le voci della folla accanto a lui e gli odori della città, un misto di tanfo e profumi che lo aveva stordito.  Ricordò come si era diretto subito alla caserma e si era arruolato, guardando negli occhi gli ufficiali sfidandoli a fermarlo. Nessuno l'aveva fatto, perchè a quel tempo avevano bisogno di chiunque fosse disposto ad entrare nell'esercito. La guerra aveva già falciato innumerevoli vite e c'era sempre bisogno di carne fresca da mandare al macello. Per qualche mese l'avevano allenato e lui aveva mostrato a tutti le sue abilità: non c'era una sola arma che non riuscisse ad usare al meglio, non c'era tecnica che non apprendesse e lentamente iniziò a scoprire di essere più abile di molti degli ufficiali. Non seppe mai se fu per invidia o per necessità che lo inviarono in battagia prima di tutte le altre reclute, sta di fatto che pochi mesi dopo il suo arrivo in città si trovò armato di tutto punto schierato in mezzo alla fanteria a caricare l'esercito nemico. E fu quello il momento che cambiò la sua vita.
Nel mezzo delle grida, fra il furore e la paura che facevano muovere l'esercito schierato come un sol uomo, un istante prima che i due schieramenti cozzassero con un fragore assordante, lo vide. Vide la sua prima vittima, un uomo più grande di lui che impugnava una lunga lancia e che correva dritto incontro. Risentì la scarica elettrica che gli era corsa lungo la schiena, ma ancor di più rivide gli occhi del suo avversario, colmi di rabbia e di dolore. Una rabbia che tuttavia non sembrava diretta verso il nemico, bensì verso sè stesso, come se si odiasse per il fatto di trovarsi lì, impugnando quella maledettissima lancia, costretto a uccidere. L'ira dell'uomo sapeva di terra bruciata, di una casa perduta, di racconti davanti al camino: era la furia di colui che che cerca la morte.
Con un movimento fluido, il ragazzo piantò la lancia nel petto dell'uomo e senza mai smettere di guardarlo negli occhi, gli sembrò che l'avesse sollevato da un grande peso. Durante quello scontro uccise molti altri uomini, sempre cercando di scrutare nei recessi del loro animo. E uccise ognuno di loro nel modo in cui essi sembravano chiedergli di farlo perchè se proprio dovevano morire, era giusto che se ne andassero a modo loro.  
Combattè innumerevoli battaglie dopo di quella e il suo modo di uccidere divenne un'arte. Che si mostrasse pietoso o crudele le sue vittime cadevano quasi con un sorriso e fu così che da soldato divenne ufficiale, da ufficiale sergente fino a ritrovarsi generale supremo dell'esercito imperiale.
Per lunghi anni servì fedelmente l'imperatore e così continuò a fare quando salì al trono suo figlio. Non era importante domandarsi che persona fosse e nemmeno se gli ordini che gli impartiva fossero giusti o no. Semplicemente dovevano essere eseguiti nel migliore dei modi. E se i provvedimenti del sovrano causavano malcontento nella popolazione, lui doveva essere il primo a difendere il potere imperiale soffocando le ribellioni che iniziavano a nascere in tutto l'impero. Ma benchè il suo talento e le sue capacità fossero grandi, nulla potè contro il tradimento di alcuni dei suoi uomini che fecero entrare in città l'esercito dei ribelli, aprendo loro le porte.
Lui era riuscito a salvare l'imperatore, ma era stato catturato dai ribelli. Lo avevano gettato in quella cella e torturato nel tentativo di estorcergli ciò che sapeva. Non aveva parlato e di tanto in tanto aveva visto al fianco dei suoi torturatori qualcuno di coloro che lo avevano tradito che tuttavia non aveva avuto il coraggio di guardarlo negli occhi.
E l'indomani sarebbero venuti a prenderlo per condurlo al patibolo.
Un sorriso stanco apparve sul volto del prigioniero. La cosa più strana era che nonostante tutto ciò che aveva fatto e che gli era successo, non riusciva a provare nulla: nè rabbia, nè dolore, nè desiderio di vendetta. E nell'arco di tutta la sua vita, non aveva mai sentito nulla. Solo nel momento in cui uccideva provava qualcosa: si sentiva utile. Aveva l'impressione di compiere qualcosa di necessario, non per sè stesso, ma per gli altri. Coloro che aveva passato a fil di spada, gli erano sempre sembrati desiderosi di smettere di vivere e ciò che aveva fatto era stato accontentarli. La sua in effetti, non era stata un'arte di uccidere, bensì un'arte della misericordia secondo il suo punto di vista.
Ma non aveva nemmeno provato a spiegarlo ai suoi carcerieri, non avrebbero capito. Nemmeno lui stesso si capiva completamente, del resto. Non rimaneva che una sola cosa da fare.
Ignorando le proteste dei suoi muscoli anchilosati, il prigioniero si alzò in piedi e raggiunse la porta della cella.
"Guardia!" esclamò con la voce arrochita dalla sete e dal poco uso.
Con una mano battè sulla porta e chiamò nuovamente.
"Cosa vuoi, bastardo?" rispose una voce dall'esterno. Nonostante le dure parole, il tono della giovane voce era titubante, come se colui che aveva parlato fosse in preda ad una lotta interiore.
Il prigioniero riconobbe la persona che aveva parlato e tirò un sospiro di sollievo. Era uno di quelli che lo avevano tradito: forse avrebbe accettato di fare ciò che gli avrebbe chiesto, se avesse fatto leva sul suo senso di colpa.
"Guardia, ho un ultimo desiderio." Rispose con voce affannosa e stanca "L'ultimo desiderio di un condannato."
Ci fu un attimo di silenzio, in cui avvertì l'indecisione della guardia che infine rispose:
"Parla. Se possibile sarai accontentato."
Il prigioniero si appoggiò alla porta cercando di non scivolare a terra.
"Vorrei..." disse con voce fioca "Vorrei che mi fosse concesso di radermi: domani ci sarà la mia esecuzione e preferirei morire da soldato. E nessun soldato, in nessun momento della sua vita ha la barba lunga."
Incrociò le dita e attese la risposta della guardia.
"Mi chiedi di darti una lama con la quale potresti ucciderci quando verremo a prenderti domani, mi credi forse così sciocco?"
"No, nient'affatto. So bene che non sei uno sciocco soldato Smithwick." Il prigioniero si godette l'effetto che le sue parole avevano avuto sulla guardia. Sapeva che il ragazzo era trasalito, non si sarebbe mai aspettato di essere riconosciuto. "Ti do la mia parola d'onore che domani, quando verrete a prendermi, non vi verrà torto un capello. Sai che non ho mai tradito la parola data. Ti chiedo solo un rasoio e uno specchio, ti prego."
Pronunciò l'ultima parte della frase con tale intensità da stupire perfino sè stesso.
Trascorsero lunghi attimi in cui non ci fu risposta, poi il giovane rispose in un sussuro:
"Non volevo che succedesse questo, generale. Non volevo tradirvi! Posso portarvi fuori da qui, ma vi prego perdonatemi!"
 Il giovane sembrava sull'orlo delle lacrime, ma il prigioniero lo azzittì.
"Se vuoi davvero aiutarmi e farti perdonare, dammi ciò che ti ho chiesto. Ti prometto che andrà tutto bene."
"Agli ordini, generale!" disse la giovane guardia con voce rotta e si allontanò lungo il corridoio.
Ascoltando il suono dei passi che si affievoliva, il generale si lasciò cadere in terra, sollevato. Era fatta, ci era riuscito. Ora non doveva fare altro che aspettare.
Dopo quello che al prigioniero sembrò un tempo infinito, il ragazzo tornò e facendo scorrere lo sportellino che usavano per passargli il cibo, fece scivolare nella cella il rasoio e un malridotto frammento di specchio.
Non appena fu certo che il giovane si fosse allontanato, prese specchio e rasoio e si mise seduto nel punto più luminoso della cella: per quello che stava per fare, aveva bisogno di vedere chiaramente. Tenendo in una mano il rasoio e nell'altra lo specchio osservò il riflesso dei suoi occhi: un volto stanco e segnato gli ricambiò un pallido sorriso. Ora sapeva, non gli serviva altro. Con un sorriso sulle labbra, e un gesto fluido del braccio, si tagliò la gola.
Per la prima ed ultima volta nella sua vita, aveva agito di testa sua. Un fiotto di sangue uscì dalle sue labbra, congelando in eterno il suo sorriso.

Cami/Bradipo

giovedì 7 giugno 2012

Bardi

Dame e Cavalieri,  bambini di ogni età.
Non narrerò una storia, ma incredibile realtà.
La vostra Margherita, scrittrice occasionale
è stata appena inclusa in un ebook niente male;
Mettendosi in combutta con altri bravi bardi
Cantato ha lei di cani, sia di razza che bastardi.
A chi di barboncini o di bulldog vuole sapere
Consiglio questo link, tosto andatelo a vedere!